Zazie Beetz: «Ho messo via la paura»
Questo articolo è pubblicato sul numero 41 di Vanity Fair in edicola fino al 12 ottobre 2021
Solo alla fine dell’intervista, per un fugacissimo momento, Zazie Beetz abbassa la mascherina e lascia intravedere le labbra morbide che si increspano per bere un sorso di tè. La maschera, invece, se la leva subito. Disinteressata a presentare una versione edulcorata di sé, si accomoda sui divanetti del Mandarin Oriental Hotel di Milano e, pochi istanti dopo, si lascia andare ad aneddoti intimi, come i pesanti attacchi di panico provati le prime volte sul set: «Me ne stavo rannicchiata in un angolo. Credevo di morire. Chiamavo tutta la mia famiglia piangendo», racconta con gli occhi sereni di chi, sulle paure, ci ha lavorato. E ha imparato a non vergognarsene.
A dire la verità, sono poche le cose di cui la 30enne metà berlinese e metà newyorkese si vergogna: tra queste non rientrano le origini umili («Con un papà ebanista e una mamma assistente sociale, non sono certo cresciuta negli agi», confessa) e le attuali pigrizie (su Instagram non fa mistero del disordine in cui è solita lasciare il suo appartamento). Atteggiamento raro per un’attrice. Rarissimo per una star del suo calibro, protagonista del film premio Oscar Joker accanto a Joaquin Phoenix, candidata a un Emmy per la serie FX Atlanta e, ora, premiata da Max Mara con il prestigioso Women in Film Max Mara Face of the Future Award, il riconoscimento che ogni anno la casa di moda dedica a quella che reputa l’icona del momento e dei tempi che verranno.
L’associazione Women in Film, che si batte per i diritti delle donne nell’industria cinematografica, l’ha definita «volto del futuro»: è più forte l’orgoglio o il peso della responsabilità?
«È più forte la sorpresa! Mi sto ancora chiedendo come mai abbiano scelto me».
Che risposta si dà?
«Forse c’entra il tipo di film a cui prendo parte. Esempio: a breve su Netflix uscirà The Harder They Fall, un western interpretato esclusivamente da attori neri. Un bel tentativo di riscrivere la narrativa di quel genere. O forse c’entra il fatto che cerco di essere sempre la versione autentica di me stessa, cosa che a Hollywood è percepita come una novità».
Vale a dire?
«Il cinema sta cambiando: c’è meno divismo, le gerarchie si sgretolano e l’alone di mistero che circondava le stelle di un tempo è in via di estinzione. La gente ha capito che noi attori siamo persone normalissime: siamo tutti esseri umani, io per prima».
Già, però non negherà di essere dotata di un plus di fascino. Uno dei motivi, forse, che hanno spinto una casa di moda come Max Mara a puntare su di lei.
«Se mi avessero visto ora, vestita con questo look sconclusionato, forse avrebbero optato per un’altra attrice! Mi guardi bene: trench trapuntato rosa e blu, pantaloni beige, sandali d’argento… sono un’accozzaglia di colori».
Lo è sempre stata, no? In passato ha raccontato che a scuola la chiamavano «la bambina arcobaleno».
«Vero. A 11 anni mio papà mi ha regalato un numero di Fruits, un mensile di moda giapponese che mi ha insegnato a esprimermi attraverso gli abiti. Ho cominciato a prendere i miei vestiti, scucirli e dare loro nuova vita, a provare accostamenti inusuali, a sbizzarrirmi con le sfumature. Il soprannome non poteva essere più azzeccato: i colori mi danno gioia e la moda è uno dei pochi ambiti in cui sono sempre stata a mio agio».
In quali, invece, non lo era?
«Tutti gli altri. Non mi sono mai sentita una “giusta”. Avevo pochi amici, evitavo le feste, stavo bene a casa mia. Ero un po’ un’outsider».
Fin da bambina?
«No, alle elementari ero vivace, bravissima a scuola e avevo persino velleità di leadership. Durante l’adolescenza ho cominciato a vacillare in tutto: voti, autostima, fiducia nelle mie capacità».
Negli Stati Uniti, dove è cresciuta dagli otto anni in poi, si esercita una forte pressione sui ragazzi perché diventino «self-confident», sicuri di sé. Non è che lei, di padre europeo, aveva semplicemente ricevuto un’educazione diversa?
«Possibile. Per me l’autostima consiste nel sentirmi una persona di valore nel profondo. È che troppe volte mi sono interrogata se lo fossi davvero. Prendiamo il lavoro, per esempio: la mia carriera è decollata in fretta e, invece che godermela, mi sono tormentata con domande tipo: me lo sarò meritato? Solo ora sto cominciando a tranquillizzarmi».
È servito il sostegno di uno psicoterapeuta?
«È stato fondamentale. Le prime volte sul set mi sentivo un bluff: ero convinta che mi avrebbero rispedita a casa per manifesta incapacità. Ma non è accaduto e, film dopo film, ho imparato una cosa importante: non lasciare che le ansie prendano il sopravvento o finirai per pregiudicarti quanto di bello c’è nella vita».
Lei, però, non è mai arrivata a tanto.
«No, ho messo via la paura prima che fosse troppo tardi. Però, con le mie lamentele, ho sfinito gli altri. A volte al mio fidanzato (l’attore e sceneggiatore David Rysdahl, ndr) veniva pure da ridere ascoltandomi».
Lui come l’aiuta?
«Mi sta accanto. Di solito, quando racconti un tuo problema, la gente tenta di risolvertelo. Lui no, mi ascolta e mi incoraggia. È un uomo sempre pieno di iniziative: tipo “facciamo questo”, “proviamo quello”. La mia prima reazione: non sono capace. La sua risposta: sì che lo sei. Alla fine finisco per credergli».
Progetti?
«Stiamo insieme da sette anni e mezzo. L’idea, prima o poi, di sposarci e mettere su famiglia c’è».
Ha mai paura che un figlio freni la sua carriera?
«Sì, ma il desiderio di essere madre è più forte. E poi penso: il mondo è pieno di donne che ce l’hanno fatta, ce la farò anch’io. Non ora però che abbiamo altri piani: una regia, una produzione…».
Insieme avete girato la serie sul cambiamento climatico andata in onda sul suo canale Igtv.
«Un’idea di David. È stato interessante, ho imparato molto: di ambiente si parla sempre in termini catastrofici, ma ci sono anche tantissime cose che ciascuno di noi può fare».
Per esempio?
«Cambiare approccio agli acquisti. Io stessa ora compro meno, prediligo capi e oggetti di seconda mano e cerco di evitare il fast fashion».
Una volta ha detto che la sostenibilità è percepita come «una roba da bianchi». Che cosa intendeva?
«Siccome spesso gli attivisti sono bianchi e benestanti, la comunità afroamericana è portata a pensare che sia una questione che non li riguarda. Sbagliano: come ogni tragedia, anche questa sarà più dura con chi ha meno mezzi».
Concretamente?
«Se il surriscaldamento globale continua di questo passo, in certe zone presto il discrimine tra la sopravvivenza e la morte lo farà il potersi permettere l’aria condizionata».
Facendosi portabandiera della battaglia, quindi, vuole ribadire che ci riguarda tutti.
«Sì, ma vorrei farlo in modo inclusivo. Vede, ci sono slogan facili da adottare: “diventate tutti vegani”, oppure “comprate solo brand sostenibili”. Il problema è che non sempre queste sono le opzioni più economiche. Per fare un investimento in pannelli solari occorrono 10 mila dollari (circa 8.600 euro, ndr): è vero che, a lungo andare, si finisce per risparmiare. Ma non tutti hanno quei soldi in tasca. Io lo so bene».
Dice così perché, in passato, ha fatto la cameriera e la commessa?
«Sì, e perché sono figlia di due lavoratori senza privilegi. Sono cresciuta in appartamenti modesti, in quartieri popolari. Non posso e non voglio dimenticarlo».
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