Ipercolesterolemia Familiare Omozigote: la storia di Valentina, in cura da quando aveva 1 anno
Esistono malattie di cui poco si parla, ma non per questo significa che non esistano, anzi. Una di queste è l’Ipercolesterolemia familiare omozigote, di cui ricorre la giornata mondiale il 24 settembre, proprio per porla sotto i riflettori.
La storia di Valentina
Valentina ha 29 anni ed è un’infermiera di area critica. Ha scoperto di avere l’ipercolesterolemia familiare omozigote all’età di 1 anno circa. «Il primo campanello d’allarme è stato la comparsa di macchie arancioni (gli xantomi) sul corpo, in particolare su gomiti, ginocchia e nella parte posteriore delle cosce – racconta Valentina – I miei genitori, preoccupati, si sono subito rivolti al pediatra che, avendo dubbi sulla possibile causa, ci ha consigliato di consultare un dermatologo.
Arrivati in una clinica dermatologica specializzata, il primario ha subito chiesto se in famiglia ci fossero dei casi di ipercolesterolemia (i miei genitori sono entrambi ipercolesterolemici eterozigoti) e da lì sono iniziati tutti i test genetici e gli esami che hanno portato alla mia diagnosi di ipercolesterolemia familiare omozigote».
Come hai preso questa notizia? «Inizialmente ero troppo piccola per poter prendere coscienza della situazione, infatti, non ho molti ricordi dei primi cinque anni di vita. Inizio ad avere qualche ricordo da quando sono stata presa in carico al Policlinico Umberto I di Roma per effettuare le sedute di plasmaferesi all’età di cinque anni. Le prime volte che facevo il viaggio Milano-Roma, prendere il treno e viaggiare mi faceva sentire fortunata. Quando però poi ho iniziato a capire il motivo per cui mi recavo a Roma, i viaggi non mi piacquero più così tanto».
Che impatto ha avuto la malattia a livello fisico e psicologico? «Mia mamma mi racconta che spesso mi vestiva con abiti che potessero coprire gli xantomi, anche d’estate, perché molte mamme le chiedevano cosa avessi ed erano scettiche nel far giocare i loro bambini con me, pensando che fosse una malattia contagiosa.
Dalla scoperta della mia patologia mi è stata prescritta una dieta esente da grassi animali, dolci, fritti… alla scuola materna infatti ero l’unica bambina che non si fermava in mensa per pranzo, ma tornava a casa. La scuola, soprattutto negli anni delle elementari e delle medie, era l’ambito che ha risentito di più delle mie trasferte a Roma. Per esempio, non ho preso parte alla foto di classe per diversi anni poiché veniva sempre fatta di giovedì, giorno in cui io ero a fare la terapia. Per lo stesso motivo, molto spesso dovetti rinunciare alle gite scolastiche perché in prossimità o in coincidenza del giorno in cui dovevo essere al Policlinico per la plasmaferesi».
Come hai affrontato la terapia? «Poco prima dei cinque anni ho iniziato il trattamento con plasmaferesi presso l’ospedale Umberto I di Roma e le sedute venivano effettuate ogni due settimane. Nel 2006, quando avevo 15 anni, dopo un anno che non riuscivano più a fare la plasmaferesi a causa di difficile accesso alle mie vene, mi hanno fatto una fistola. A quel punto mia madre ha cercato di fare in modo che potessi essere trattata a Milano, nonostante non fossi ancora maggiorenne. In quel periodo, la plasmaferesi in Lombardia era riservata solo ai pazienti maggiorenni. Fortunatamente, mia mamma è stata in grado di farmi prendere in carico presso un centro milanese, l’ospedale Niguarda di Milano.
Dopo circa un anno di plasmaferesi al Niguarda, la fistola si è chiusa. Per questo motivo, i medici mi hanno proposto di tentare una terapia farmacologica. Ho iniziato la terapia con un farmaco che all’epoca in Italia non era disponibile, l’ezetimibe (mia mamma e mio fratello andavano in Svizzera a prenderlo), che per fortuna mi ha permesso di tenere i valori sotto controllo. Nel frattempo, ogni due anni andavo a Roma per fare una coronarografia di controllo, per assicurarmi che non avessi possibili complicanze dovute all’ipercolesterolemia.
La vera svolta però è arrivata qualche mese prima dei miei 18 anni. I medici del Niguarda mi hanno parlato di una sperimentazione su un farmaco orale che si era appena conclusa in America e che aveva dato esiti molto positivi. In Italia la sperimentazione sarebbe iniziata dopo poco e io sarei potuta essere una papabile candidata. Compiuti i 18 anni, ho firmato il consenso per partecipare alla sperimentazione e ho iniziato il trattamento con questa nuova terapia.
Con la nuova terapia orale in capsule ho raggiunto dei livelli di colesterolo nel sangue che non avevo mai raggiunto prima: non superavo i 100 mg/ml. In più ho avuto la fortuna di tollerare molto bene il farmaco, senza avere particolari effetti collaterali.
Sono stata trattata con questo farmaco per 10 anni. Terminata la sperimentazione, nel 2019, la Regione Lombardia faceva fatica a reperire il farmaco e quindi la terapia orale in capsule mi è stata sostituita con un altro farmaco che però non solo non ha dato gli stessi risultati a livello di valori, ma aveva anche una modalità di somministrazione più sfavorevole e fastidiosa (tre punture sottocutanee ogni 15 giorni).
Nel 2020, complice anche l’emergenza sanitaria da Covid-19, che ha reso più difficoltoso gli spostamenti e l’accesso al Niguarda, ho cercato un altro centro in Lombardia che trattasse l’ipercolesterolemia più vicino a casa. Inoltre, volevo ricominciare il trattamento con la terapia orale in capsule.
Mi sono rivolta quindi all’ospedale Bassini di Cinisello Balsamo che ha accettato di prendermi in cura e così, dopo aver rifatto gli esami e i controlli necessari, sono riuscita a ricominciare la terapia orale. Al momento assumo un dosaggio minore rispetto a due anni fa, ma i valori sono tornati a essere molto buoni».
Come stai oggi? «Oggi riesco a svolgere una vita normalissima, senza alcun tipo di rinuncia particolare. Posso svolgere qualsiasi tipo di attività sia lavorativa che di svago e non ho troppe restrizioni dal punto di vista dell’alimentazione. Quando parlo di ipercolesterolemia spesso le persone pensano che si tratti “semplicemente” di colesterolo alto e tendono a sminuire, difficilmente conoscono la patologia omozigote e tutte le sue conseguenze».
Ti sei mai rivolta a delle Associazioni pazienti? Quali? «Quando ero in trattamento presso il Policlinico Umberto I di Roma era stata fondata un’associazione chiamata ANIF (Associazione Nazionale Ipercolesterolemia Familiare), della quale mia mamma era vicepresidente. Di recente sono venuta a conoscenza dell’esistenza del GIP-FH (Gruppo Italiano Pazienti Ipercolesterolemia Familiare), che so che svolge attività di informazione sulla patologia e offre servizi utili ai pazienti. Inoltre, ora sta promuovendo un’iniziativa di sensibilizzazione sulla patologia».
Quale messaggio vorresti lanciare alle persone in merito a questa patologia? «Ai pazienti con ipercolesterolemia familiare omozigote suggerirei di non sottovalutare mai nessun sintomo e di essere costanti nella terapia e attenti a possibili complicanze.
Oggi convivere con questa patologia è possibile. Con gli approcci terapeutici di un tempo forse era più difficile, ma sono stati fatti passi da gigante in termini di terapie e conoscenze. Oggi le opzioni a disposizione per poter vivere con una buona qualità di vita sono molteplici. L’importante è riconoscere la patologia, avere gli strumenti farmacologici adeguati e agire quanto prima!».
IPERCOLESTEROLEMIA PRIMARIA O FAMILIARE: COSA C’È DA SAPERE
L’ipercolesterolemia primaria o familiare (FH) è una malattia ereditaria in cui un’alterazione genetica provoca livelli estremamente elevati di colesterolo nel sangue. In particolare, ad aumentare è il colesterolo LDL (Low Density Lipoproteins, lipoproteine a bassa densità), il cosiddetto “colesterolo cattivo”.
Questa malattia si può presentare in due forme diverse: una meno grave, eterozigote (1 caso ogni 200-250 individui circa) e una più grave, omozigote (1 caso ogni 3.000.000-1.000.000 individui).
La forma eterozigote (HeFH) è spesso asintomatica e viene diagnosticata solo in base alla ricerca dei livelli di colesterolo nel sangue. Il fegato fa fatica ad eliminare le LDL perché i recettori per le LDL sono prodotti in numero insufficiente, a cui consegue un aumento nel sangue di 2 o 3 volte rispetto ai valori normali. Questa forma può condurre a un aumento del rischio di malattie cardiovascolari in età adulta.
La forma omozigote (HoFH), invece, è caratterizzata dall’insorgenza di malattie cardiovascolari anche in giovane età e dalla presenza di accumuli caratteristici di grasso come xantomi (noduli di colore giallastro sulle nocche delle mani e sul tendine di Achille) e xantelasmi (placche giallastre sulle palpebre e intorno agli occhi).
Il difetto genetico viene ereditato da entrambi i genitori e, il rischio di infarto in assenza di terapia, si osserva già intorno ai 15-20 anni di età. Infatti, in questa condizione, il fegato non riesce a metabolizzare le lipoproteine che rimangono nel sangue e quindi si accumulano portando alle disfunzioni già illustrate e creano una situazione incompatibile con la vita.
Va precisato che il colesterolo, di solito demonizzato, è invece un componente dei lipidi molto importante per la vita perché viene utilizzato per la formazione delle membrane delle cellule (per assicurarne la funzione) e protegge i neuroni e i nervi cranici. Il colesterolo è utilizzato anche per la sintesi di altre molecole, tra la quali ci sono gli acidi biliari (importanti per la digestione), alcuni ormoni e la Vitamina D. Solo se presente in eccesso, rispetto a questi fabbisogni, può causare gravi danni.
In caso di ipercolesterolemia, il colesterolo si accumula nel sangue sotto forma di lipoproteine leggere (LDL), particolari aggregati di grassi e proteine, dette anche “colesterolo cattivo” che favoriscono la formazione di placche nella parete delle arterie (placche aterosclerotiche).
Questo accade quando i pazienti hanno livelli di colesterolo talmente alti che non riescono a eliminarlo attraverso i meccanismi fisiologici del fegato. L’accumulo di LDL nel sangue alla fine porta alla formazione dell’ateroma (un ingombro fisico al normale flusso del sangue), che può portare alle conseguenze più gravi come angina, infarto, ictus, nel cuore, ma anche in altri organi quali cervello, reni, polmoni e lo stesso fegato.
L’ipercolesterolemia familiare omozigote fino a poco tempo fa si considerava una patologia incurabile: la terapia a base di statine, infatti, non è efficace su questa patologia. Le statine, farmaci che agiscono sui meccanismi che portano alla produzione di colesterolo endogeno, non possono stimolare la sintesi dei recettori per le LDL.
Per eliminare il colesterolo LDL dall’organismo si deve ricorrere alla plasmaferesi, una tecnica che permette di filtrare il sangue eliminando i grassi, analogamente a quanto si fa con la dialisi quando i reni non funzionano. Tuttavia, si tratta di una procedura invasiva con impatto negativo sulla qualità della vita dei pazienti.
Negli ultimi anni, la ricerca ha portato allo sviluppo di farmaci specifici (come il lomitapide, che si assume oralmente) anche per la forma omozigote della ipercolesterolemia familiare, migliorando notevolmente l’aspettativa e la qualità di vita dei pazienti che ne soffrono.