Il giovane Sorrentino
«Il cinema serve a distrarre dalla realtà. Perché la realtà è scadente. Per questo voglio un’altra vita, per questo voglio fare il cinema». Fabietto è un diciottenne che è appena diventato orfano, i genitori sono morti intossicati da una fuga di monossido di carbonio di una stufa, e sta urlando al maestro del cinema Capuano tutta la sua disperazione, ma anche tutta la sua voglia di vivere. È il grido di un adolescente che ha perso i genitori, ma è anche il grido di un futuro cineasta premio Oscar che sogna una via di fuga attraverso il cinema. È stata la mano di Dio – presentato in concorso alla Mostra del cinema di Venezia, in cinema selezionati dal 24 novembre e su Netflix dal 15 dicembre – è il nuovo film di Paolo Sorrentino, il film biografico che racconta il momento in cui il destino ha impresso una svolta irreversibile alla sua vita. Lo ha scritto da solo e rappresenta una svolta rispetto al cinema sorrentiniano che conosciamo, fatto di dimensione onirica e virtuosismi.
Fabietto (il bravo Filippo Scotti) è il giovane Sorrentino che studia al liceo classico, non ha amici ma la sua è una famiglia vitale e allegra in cui tutti si vogliono bene. Il padre (Toni Servillo), direttore di banca, è un uomo buono e generoso, comunista, anche se nasconde un grande segreto. La madre (Teresa Saponangelo) è una donna divertente che adora fare gli scherzi ai vicini e al marito. Poi ci sono il fratello maggiore, bravo ragazzo alle prese con le prime cotte, la sorella che sta sempre chiusa in bagno, la sensuale zia Patrizia (Luisa Ranieri) con problemi di salute mentale, lo zio violento e tutto il corollario dei personaggi secondari che insieme formano un quadro coloratissimo da teatro napoletano (tra i migliori, il fidanzato anziano «aspirante pasticcere» della sorella di Servillo, preso in giro da tutti).
La vita scorre serena, si supera anche una grave crisi familiare, finché la disgrazia si abbatte senza preavviso sulla famiglia. Fabietto ripensa allora alla frase che il fratello dice di aver sentito dire a Fellini durante un provino: «Il cinema serve a distrarre dalla realtà, la realtà è scadente». Il cinema dunque è la salvezza? Fabietto comincia a sperarci, si aggrappa a questa idea con tutte le sue forze, e si mette alla ricerca di un maestro, che gli fa la domanda più importante: «Ma tu ce l’hai qualcosa da raccontare?». «Sì», risponde lui, ma non ci dice cosa. Il cinema come costruzione di una realtà alternativa, Fellini: Sorrentino mette a nudo le sue intenzioni originarie, i maestri, i motivi per i quali prenderà un treno per Roma a studiare cinema.
È stata la mano di Dio è anche un film sul destino e sulle sliding doors della vita: se Fabietto, spinto dalla passione totalizzante per Maradona, non avesse voluto andare a vedere Empoli-Napoli quel giorno, sarebbe probabilmente morto insieme ai suoi genitori. «Maradona ti ha salvato la vita», sentenzia lo zio avvocato e il ragazzo accoglie la frase come una rivelazione. Tutto torna: nel 2014, durante il suo discorso di accettazione dell’Oscar per La grande bellezza, Sorrentino passa alla storia anche per i ringraziamenti: «Grazie alle mie fonti di ispirazione: Federico Fellini, i Talking Heads, Martin Scorsese e Diego Armando Maradona». Maradona non è solo fonte di ispirazione e oggetto di un culto che solo un napoletano negli anni Ottanta, gli anni del fuoriclasse a Napoli, può spiegare, ma è salvatore, agente del destino.
Di fronte a una storia così personale, Sorrentino ha dichiarato di aver voluto far fare un passo indietro alla macchina da presa, e in effetti È stata la mano di Dio è il film meno sorrentiniano di sempre, non ci sono virtuosismi, la regia è semplice, la messa in scena essenziale, anche l’uso della musica e della fotografia è neutro. Un racconto di formazione che è anche racconto di un periodo, gli anni Ottanta a Napoli, in cui per il giovane Sorrentino era anche possibile fare amicizia con un contrabbandiere e finire una notte a Capri nella piazzetta spettrale, in cui passa l’uomo più ricco del mondo.