Area Marina: Atlete, media e Olimpiadi. La discriminazione è dietro l’angolo
Il 2021 è senza dubbio l’anno dell’Italia in fatto di sport. Prima campioni d’Europa nel calcio, e poi una conquista dopo l’altra alle Olimpiadi di Tokyo, che culmina con la vittoria di ben cinque medaglie d’oro nell’atletica leggera. Ovviamente, non possiamo che gioire di questi traguardi. Un po’ meno per come vengono trattate le atlete sui giornali e sul web.
Esiste da sempre una grande differenza con cui si raccontano le notizie sulle donne rispetto a quelle che riguardano gli uomini. Si parte dalla tendenza a concentrarsi su aspetti che nulla hanno a che vedere con la professionalità o i meriti della donna in questione, come maternità e famiglia, per arrivare poi a chiamarle esclusivamente per nome negli articoli, con la stessa confidenza con cui mia nonna parla della sua vicina di casa.
Per la frequenza con cui questo avviene, confesso che ormai certi titoli di giornale non mi meravigliano più di tanto. Eppure devo ammettere che ci sono rimasta di stucco quando persino il profilo Instagram ufficiale della Federazione Italiana di Atletica Leggera ha pubblicato le grafiche relative alla vittoria di Tamberi, Jacobs e Stano con il cognome evidenziato in neretto, mentre l’unica ad avere in evidenza il nome era Palmisano.
Ci si meraviglia così tanto dei traguardi raggiunti da una donna che si sente il bisogno di ricondurla a qualcosa di familiare. Ed ecco che magicamente spariscono i cognomi, fioccano soprannomi confidenziali e il tutto viene ridimensionato a una sfera di “simpatica giocosità”.
Lo spiega in maniera cristallina Michela Murgia nel libro Stai Zitta: “Chiamate col nome di battesimo, queste donne di potere, con titoli di laurea, spesso poliglotte, che hanno guidato ministeri, amministrato regioni o città di milioni di abitanti o retto vent’anni di militanza partitica diventano di colpo tutte nostre cuginette, amiche delle nostre figlie, svampite ragazzine alla prima uscita. Perché è questo che fa l’uso del nome proprio delle donne in contesti non confidenziali: riduce la distanza simbolica, esprime paternalismo, agevola l’uso del tu familiare e diminuisce l’autorevolezza della funzione ricoperta, riportando la donna alla condizione di principiante, con il sottinteso che, in quanto tale, sia incapace di reggere la responsabilità che porta”.
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Tokyo 2020: la migliore Olimpiade di sempre in una meravigliosa estate italianaSuccede anche quando si parla del genere femminile come gruppo. Spesso e volentieri un insieme di donne si trasforma automaticamente in “le ragazze”, anche se magari hanno superato da un bel po’ l’adolescenza. Avrò letto una miriade di titoli che cominciano con “le ragazze del”, dove a seguire c’è qualsiasi sport o professione.
Per certi versi questo è un aspetto che le donne condividono con le persone con disabilità, anche intorno a loro c’è una bassa aspettativa per cui ricevono sovente lo stesso trattamento sui quotidiani, con la sola differenza che gli aspetti familiari a cui vengono ricondotte le loro narrazioni toccano esclusivamente corpo e disabilità.
A mostrarci articoli di giornale dove ci sono “le ragazze” e la solita “donna a caso” che fa cose, c’è il famoso profilo Instagram de @ladonnaacaso. Dai post e dalle segnalazioni che arrivano ogni giorno si percepisce quanto sia frequente la svalutazione del genere femminile, in totale contrapposizione con la narrazione del corrispettivo maschile. E a chi si ostina ancora a dire che no, non è vero, le cose sono cambiate, ormai non c’è alcuna differenza nel raccontare uomini e donne, li sfido a trovarmi un titolo di giornale che inizi con “un uomo alla guida di”, o un’intervista in cui si chiede a un uomo come fa a conciliare carriera e famiglia, poi ne parliamo.