Disabile come te
Questo articolo è pubblicato sul numero 24-25 di Vanity Fair in edicola fino al 21 giugno 2021
Ho un’amica che si chiama Benedetta ed è disabile. «Benedetta mica tanto», scherza. Mi ha raccontato che da bambina eccelleva in tutti gli sport: tennis, basket, sci, nuoto. Quando aveva diciassette anni facendo un tuffo ha battuto la testa contro uno scoglio. È stata in ospedale quasi un anno, ha subito molte operazioni, è tornata a casa in sedia a rotelle e qualche settimana dopo ha dato l’esame di maturità. Poi ha studiato legge e oggi fa l’avvocato, si occupa di diritto societario in un grande studio romano. «Hai presente quelle avvocate americane agguerrite coi tacchi alti e il tailleurino aderente? Io sono così, senza tacchi e tailleurino che mi stanno scomodi, ma quando entro in sala riunioni in carrozzina ti assicuro che faccio la mia porca figura».
Con Benedetta ci siamo conosciute tempo fa ma siamo diventate amiche solo dopo un’accesa discussione a proposito di non ricordo cosa, ricordo solo che avevo ragione io e avevo tenuto il punto. «Nessuno mi irrita più di quelli che mi danno ragione perché sono in sedia a rotelle», dice. «Hai fatto bene a sfancularmi così. Odio chi mi tratta da disabile». Benedetta è piuttosto sboccata. Un giorno mi ha spiegato una cosa che non ho più dimenticato: «Essere disabile è come essere vittima di un errore giudiziario, uno pensa che a lui non succederà mai, invece può capitare a tutti, da un momento all’altro. Ci trattano come fossimo alieni provenienti dallo spazio, ma siamo perfettamente uguali agli altri, anche se non usiamo le gambe. Potrebbe capitare anche a te, sai?». Ho toccato ferro mentre lei sghignazzava. Le piace fare la bulla. Ha un delfino tatuato sul polso destro e una fidanzata che la adora, ma non vivono insieme. «Perché io ho bisogno di sentirmi il più possibile autonoma». Una volta mi ha detto: «Ti sei mai chiesta perché nelle città del Nord Europa vedi tanti disabili in giro e qui no?». «Ci sono più incidenti?», ho chiesto stupidamente. «No, tesoro. È che da noi stanno chiusi in casa: andare in giro in carrozzina per le città italiane è un fottuto incubo».
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