Juri Chiotti: «La rivoluzione è coltivare un orto»
Juri Chiotti è un duro e puro, uno di quelli che ti fa pensare che esista un futuro diverso, forse già dietro l’angolo. Alle scuole medie sa già che vuole fare il cuoco, studia all’alberghiero, inizia a girare le cucine dei grandi chef, prende in mano un ristorante a Cuneo, e prende la Stella Michelin. È il più giovane a ottenerla insieme all’altro chef del ristorante, Diego Rossi.
Poi però lascia tutto e va a gestire un rifugio di montagna per 4 anni a 1.850 metri in Valle Varaita, nel Piemonte più estremo, di cui è originario. È pazzo? No, sceglie cosa vuole fare nella vita. E cosa vuole fare non è solo cucinare. Lui attraverso il cibo vuole cambiare le cose. Sa di avere in mano la «patata bollente» del millennio. Come scegliamo di mangiare plasma il mondo, anzi in questo momento storico, fa ancora di più, ci permetterà o meno di avere un futuro.
Dopo il rifugio, scende di un migliaio di metri di altitudine, restando sempre in valle, è nata la sua prima figlia (oggi Juri a 35 anni ne ha altre due) e si avvicina al paese. Prende un agriturismo e ci apre il suo ristorante, lo chiama «REIS: Cibo Libero di Montagna». «Reis» in dialetto occitano significa radici, quelle della sua terra che oggi sono ancora più profonde. Oggi sta ristrutturando il fienile dal padre a Chiot Martin, una borgata di solo qualche casa. Qui aprirà il suo nuovo ristorante, con lo stesso nome, ma sempre più vicino alla sua idea e al suo progetto.
Qual è il tuo progetto?
«In questi anni ho capito che il mio mestiere può essere un mezzo per arrivare ad altro. Il lavoro del cuoco è molto importante in questo momento, il cibo influenza le nostre vite, anche a livello globale. Quando a 25 anni prendi una stella è facile montarsi la testa, tutti ti chiamano, tutti vogliono venire da te, e questo meccanismo ti fa perdere di vista le cose che sono importanti. Per questo ho mollato quel mondo, e sono tornato in montagna. Voglio mettere la mia esperienza a servizio degli altri, dare un esempio che possa creare un cambiamento».
E qual è il cambiamento?
«Quello di tornare alla terra. Coltivare quello che mangiamo. La cucina non è niente se non c’è qualcuno che produce le cose. Per questo ho preso un agriturismo, per unire la produzione alla cucina e dare il giusto valore all’alimento prima che arrivi sul piatto. Ho preso le pecore, poi le capre, poi sono arrivate le anatre, le galline, coltivo l’orto. Il mio obiettivo era creare un luogo che fosse autosufficiente, dimostrare a me stesso che era possibile per poi dire agli altri: “guardate, si può vivere e avere un ristorante senza impattare sull’ambiente”. Per il mio nuovo locale sto usando come travi dei vecchi castagni del bosco invece che il legname che viene dall’Austria e dalla Slovenia. Credo sia il momento in cui ogni territorio debba mantenersi con le risorse che ha, per avere un impatto ecologico sempre più basso. Quanto impatta un castagno nato a fianco a casa, tagliato e messo sul tetto? È un discorso che siamo obbligati a fare per ogni tematica. Anche perché non abbiamo più tempo. È una necessità se vogliamo avere un futuro».
Oltre a una necessità è anche una scelta?
«Sì, mentre diventiamo consapevoli che dobbiamo cambiare ci accorgiamo anche che è bello farlo. È bello riscoprire i valori più alti che l’umanità sa sviluppare. Il senso della comunità, il confrontarsi con gli altri, non basarsi esclusivamente sul profitto. Io queste cose le sto vivendo e non voglio certo tornare indietro».
È un cambiamento che già in parte è in atto nella società?
«Non per la maggior parte della popolazione. Ci siamo distaccati completamente dalla natura negli ultimi 50 anni e ci vuole tempo per cambiare. L’aspetto positivo della pandemia è che tanta gente si sta facendo delle domande e prova a uscire dalla bolla che ci siamo costruiti. Ogni mese c’è un ragazzo giovane che viene a vivere in Valle».
Si sta creando una nuova comunità?
«Si ci sono i ragazzi che fanno birra, una ragazza che fa linfa di betulla. Poi ci sono i ragazzi di Cresco, che hanno creato una comunità di sviluppo e sostegno all’agricoltura. Coltivano varietà di ortaggi che si stavano perdendo in modo naturale, chiedono una quota di iscrizione di un anno che da diritto a una cassa di verdura ogni settimana. Hanno aderito in 80 famiglie e la cosa bella è che è una comunità, se c’è bisogno di aiuto i soci se vogliono danno una mano».
Un po’ come si faceva in montagna un tempo?
«Sì perché la montagna è un territorio difficile e dove c’è difficoltà l’umanità si ritrova più coesa. Anche in questo caso la pandemia ha aiutato, le persone hanno riscoperto la solidarietà. E poi hanno anche iniziato a impastare e qualcuno a farsi l’orto. Può essere l’inizio di una rivoluzione»
Che cosa è rivoluzionario?
«L’orto è la cosa più rivoluzionaria che possiamo fare fare oggi. Con 4 piante di pomodoro sul balcone non compri pomodori per tutto l’anno, un orticello coltivato con un po’ di esperienza può soddisfare il bisogno di un’intera famiglia. Se ogni famiglia coltivasse per il proprio fabbisogno, scombussoleremmo totalmente il sistema mondiale».
Una «rivoluzione alimentare» dai forti risvolti politici …
«Il cibo è la cosa più politica che ci sia oggi. Non ho il tempo, ma mi piacerebbe poter mettere insieme le persone che la pensano come me per avere una voce, per dire per esempio che vogliamo che a scuola insegnino educazione alimentare, fondamentale per il futuro. Siamo arrivati fino a questo punto per mancanza di conoscenza e perché non pensiamo di essere responsabili di quello che succede. Tutto alla fine si riduce a una cosa semplice: il rapporto che abbiamo con la fatica. Il mondo che abbiamo oggi nasce dal tentativo di evitare la fatica, ma questo modello ha delle conseguenze».
Sono i famosi costi nascosti del cibo?
«Al supermercato i prodotti sono comodi ma quel prezzo qualcuno la paga, l’ambiente, il coltivatore sottopagato. Con il mio lavoro voglio dire che si può vivere bene e vivere bene con il pianeta».
E come fai a dirlo?
«Con i miei piatti. Con il menù che viene deciso dall’orto. Il cuoco che esce dalla cucina e ti racconta non la tecnica che ha utilizzato per un piatto ma da dove viene il prodotto, ti scombussola un po’. Tutti capiscono che c’è qualcosa di diverso da quello a cui sono abituati. Insomma, come minimo, vanno a casa con un pulce nell’orecchio».
Un esempio.
«Lo stracotto di agnello allevato da noi, servito con lo spinacio di montagna che raccolgo qui attorno, magari accompagnato da un kefir del nostro latte di capra e da un bicchiere di Sreja, un nebbiolo prodotto da Enrico Cauda nel Roero».