Video di Grillo, la psicologa: «Non c’è protezione del figlio»
Difesa del figlio per alcuni, colpevolizzazione della vittima per molti altri, solo farsa per altri ancora. Fa discutere il video di Beppe Grillo che parla del figlio coinvolto, con altri tre ragazzi, in un caso di stupro avvenuto nell’estate del 2019 in Sardegna. «Se dovete arrestare mio figlio, perché non ha fatto niente, allora arrestate anche me perché ci vado io in galera» dice il fondatore del Movimento 5 Stelle.
La moglie di Grillo lo sostiene dicendo che il video dei telefonini dei giovani conferma che la ragazza era consenziente. Dall’altra parte i genitori della giovane si dicono distrutti e l’avvocato Giulia Bongiorno, che difende la diciannovenne è pronta a portare il video di Grillo in Procura. All’Aria Che tira su La7 ha spiegato. «È una prova a carico, documenta una mentalità, quella dell’eufemizzazione, spesso usata dagli uomini per giustificarsi quando sono imputati. Si dice alle vittime, state attente. Ma noi non ci facciamo intimidire!».
https://twitter.com/beppe_grillo/status/1384109056592281607Non è un intervento di difesa del figlio per Maria Silvana Patti che fa parte del servizio di psicotraumatologia di Arp, Studio Associato Di Psicologia Clinica, a Milano ed è membro del comitato scientifico della Casa della Psicologia dell’Ordine degli Psicologi Lombardi. «Interviene nel nome del figlio, quindi con un intento protettivo, ma a me appare come l’ennesimo atto di violenza all’interno di una situazione già violenta. Non mi sembra protettivo nei confronti del ragazzo e di nessun altro. È violento anche nei confronti del pubblico perché irrompe in un modo poco rispettoso dei confini emotivi delle persone a cui viene proposto».
Perché non è protettivo nei confronti del figlio?
«Prima di tutto c’è un tema di rispetto dei confini. Se mai ci sarà un processo, tutto si deciderà all’interno del luogo adatto e non in questo modo. Secondo: non è questo il messaggio che noi vogliamo trasmettere ai nostri figli. Non si può intervenire in favore di un figlio accusando altri, in particolare in un caso come questo in cui l’altro è persona fragile, vittima della situazione. Non è protettivo. È lesivo dei confini emotivi, psicologici e persino fisici».
C’è la sua reazione di padre.
«Capisco il momento difficile di un padre che si trova di fronte a una situazione così in cui c’è un figlio accusato di una cosa orrenda. Non traspare tristezza e nemmeno dolore. Solo rabbia e violenza».
Non c’è nulla di protettivo?
«Noi siamo protettivi per i nostri ragazzi quando li aiutiamo anche ad accettare i loro errori, da piccoli a grandissimi, e a sviluppare il proprio senso di responsabilità. Per me la violenza è anche questo: il buttare fuori in maniera non pensata tutta la rabbia. È un’irruzione fatta in maniera lesiva nell’esistenza di tutti compreso il pubblico a cui è rivolto».
Questo video è una forma di victim blaming?
«Purtroppo sì. Chi si occupa di traumi di questo tipo sa benissimo che è così. La prima cosa da fare per curare una persona che ha subito un trauma è metterla in sicurezza. Vuol dire creare condizioni dentro le quali può sentire di avere il diritto di raccontare e di denunciare. Questa sicurezza passa attraverso il rispetto: il non clamore, quindi spegnere i riflettori, ma anche il non dover avere a che fare con il giudizio sommario che si forma attraverso i media».
Invece succede il contrario.
«Il primo meccanismo è sempre andare a pensare che la vittima se l’è cercata: perché era in quel posto a quell’ora? E poi tutti i cliché del caso a partire dalla mancata denuncia immediata dello stupro».
Perché la denuncia non è immediata?
«C’è una parte clinica e una sociale. Per la prima quando noi siamo sottoposti all’orrore ci possiamo bloccare e non siamo in grado di capire quello che ci sta succedendo, a maggior ragione se siamo sotto effetto di sostanze. Il blocco è una reazione fisiologica ai traumi. Questo ce lo portiamo a lungo come ottundimento cognitivo, è una funzione protettiva. Quando la difesa viene meno dobbiamo affrontare quello che ci è successo».
Qui è il momento della denuncia.
«Siamo a un bivio perché scatta il problema della sicurezza. È sicuro denunciare? Mi espongo a una nuova traumatizzazione? Ci si trova di fronte ad accuse, giudizi e commenti. Viene meno la rete solidale attorno alla vittima. È questione culturale. Ancora una volta, anche nel video, ci troviamo di fronte a una visione della donna come oggetto e non come persona. Pur non conoscendo i dettagli di quello che è successo, il racconto di questo video ci fa entrare alla circostanza. Si parla di una ragazza consenziente: ma quanto si può essere consenzienti sotto l’effetto dell’alcol e in una situazione di minoranza?».
Cosa accade alla vittima da questo punto in poi?
«Si sente senza protezione e con addosso gli occhi di tutti. Emergono emozioni difficilissime da gestire. Su tutte la vergogna per cui vorresti sparire e invece ci sei e sei guardata con biasimo».
Quanto è forte il condizionamento culturale?
«Ancora molto forte. Finché non riusciremo a pensare che una donna abbia il diritto di passare le sue serate come preferisce senza diventare oggetto di violenza, i pensieri che in qualche modo la mettono sotto accusa e che non le permettono di uscire in sicurezza torneranno sempre. È una lesione della libertà personale».
Come ci si occupa degli aggressori?
«C’è da fare anche una riflessione su come non proteggiamo i maschi in questo caso: non li aiutiamo a sviluppare una sensibilità e un rispetto dell’altro sesso nell’ottica di cambiare la cultura. Ci sono persone che si occupano di curare gli aggressori, come il CPM di Bollate a Milano perché finché non cambia la mentalità maschile avremo sempre episodi di questo genere».