Cina, maschi troppo effeminati: la virilità si insegna a scuola
«Coltivare la mascolinità». È l’obiettivo del governo cinese che propone, attraverso la scuola, un «piano per prevenire l’effeminazione degli adolescenti maschi». Il metodo scelto dal ministero dell’Istruzione di Pechino è prima di tutto l’aumento dei corsi di educazione fisica nelle scuole. Servirebbero a battere la scarsa virilità che, secondo le autorità, dimostrerebbero i ragazzi.
Sarebbero da privilegiare gli sport di contatto e servono per questo insegnanti capaci di metodo forti. La presunta effemminatezza sarebbe causata dall’eccessiva presenza di donne fra gli insegnanti e a modelli poco virili fra cinema, musica e tv. Ragionando per stereotipi meno boy band e più sollevamento pesi.
Il governo cita gli eroi militari che non esistono più e il presidente Xi Jinping chiede più campioni sportivi a un paese che è già una potenza a livello olimpico. I social, voce popolare, attaccano. Su Weibo, la piattaforma più usata in Cina, la parola chiave è sessismo, peraltro già esistente nel paese, e il timore è che una politica del genere aumenti ancora la disparità di genere e il sessismo.
Fra i commenti: «L’educazione dovrebbe servire a formare buoni esseri umani», «La cosa più importante dovrebbe essere imparare a essere una brava persona». Per quasi tutti è senza senso pensare che l’attività fisica possa aumentare la virilità, come ci fosse una formula che porti le palestre a cambiare la sessualità, e per tanti è per definizione sbagliato considerare la femminilità come una caratteristica negativa.
Il vento sessista arriva fino al Giappone, tocca ancora il campo dello sport, quello olimpico, che più di ogni altro dovrebbe essere inclusivo. Yoshiro Mori, 83enne presidente del Comitato organizzatore dei Giochi di Tokyo, ha riposto così a una domanda sulla scarsa presenza femminile, 5 su 23, nel comitato che guida: «Il problema è che le donne parlano troppo. Le riunioni a cui partecipano tante donne in genere vanno avanti più del necessario. Le donne hanno un forte senso della competizione, se una alza la mano per prendere la parola anche le altre si sentono in dovere di farlo e la faccenda così non finisce più».
Nessuna obiezione fra i partecipanti alla riunione secondo i giornali giapponesi. Anzi pare ci siano state risate. Molto probabilmente la maggioranza erano uomini. Sui social network c’è una campagna per chiedere le sue dimissioni e l’opposizione in parlamento ha chiesto il suo licenziamento. Lui non è pronto a lasciare. «Non ho intenzione di ritirarmi, ritiro semplicemente ciò che ho detto, è la soluzione più rapida. Quella constatazione mi ha creato problemi anche a casa: mia moglie, mia figlia e mia nipote mi hanno detto che ho sbagliato e mi hanno sgridato».
Né il Comitato Olimpico né il Giappone hanno una storia di inclusione e parità di genere. Alle prime Olimpiadi moderne non furono invitate. Era il 1896 e per il barone de Coubertin farle partecipare sarebbe stato «antiestetico e inappropriato». Ancora adesso c’è gender gap nello sport, lo si vede chiaro dai compensi.
Il paese del Sol Levante è 121esimo su 152 paesi per divario fra i generi secondo la classifica del World Economic Forum. Tokyo non brilla neanche per i diritti Lgbt. Solo in alcune zone del paese esiste una legge contro la discriminazione per orientamento sessuale e non ci sono norme specifiche per le famiglie arcobaleno. In vista dei giochi l’associazione All Out, in collaborazione con Human Rights Watch, Athlete Ally e la Japan Alliance for LGBT Legislation (J-ALL), ha fatto partire una campagna per una legge che garantisca pari diritti e protezione alla comunità LGBT in Giappone.