Silvia Romano: «Così sono diventata Aisha»
C’erano state le poche parole al rientro in Italia, l’affetto per i genitori e l’invito su Facebook agli amici a non rispondere agli attacchi nei sui confronti. Erano state queste finora le dichiarazioni di Silvia Romano che ora invece racconta per la prima volta in una intervista i mesi della prigionia e la sua conversione all’Islam al giornale online La Luce, di cui è direttore Davide Piccardo esponente della comunità islamica di Milano.
«Ero disperata perché, nonostante alcune distrazioni come studiare l’arabo, vivevo nella paura dell’incertezza del mio destino», ha raccontato, «ma più il tempo passava e più sentivo nel cuore che solo Lui poteva aiutarmi e mi stava mostrando come . La fede ha diversi gradi e la mia si è sviluppata con il tempo. Sicuramente dopo aver accettato la fede islamica guardavo al mio destino con serenità nell’anima».
La volontaria italiana rapita in Kenya e liberata lo scorso maggio dopo un anno e mezzo di prigionia descrive le prime settimane dopo il ritorno in Italia. «Quando vado in giro sento gli occhi della gente addosso, non so se mi riconoscono o se mi guardano semplicemente per il velo. Ma non mi dà particolarmente fastidio. Sento la mia anima libera e protetta da Dio. Per me il mio velo è un simbolo di libertà. Per me la libertà è non venire mercificata, non venire considerata un oggetto sessuale».
Sente che la gente la guarda in autobus come in in strada e colpisce il fatto che sia italiana e con il velo. «Sento dentro che Dio mi chiede di indossare il velo per elevare la mia dignità e il mio onore, perché coprendo il mio corpo so che una persona potrà vedere la mia anima» ha detto la volontaria che ha anche cambiato nome, ora è Aisha.
La religione, racconta sempre nell’intervista, non era nei suoi pensieri prima della partenza e anche l’idea dell’Islam non era quella attuale, nonostante fosse stata cresciuta nella tolleranza e nel rispetto.«Quando vedevo le donne col velo in Via Padova, avevo quel tipico pregiudizio che esiste nella nostra società, pensavo: poverine! Per me quelle donne erano oppresse, il velo rappresentava l’oppressione della donna da parte dell’uomo».
Il primo pensiero è andato alla religione nel momento del rapimento. «Nel momento in cui fui rapita, iniziando la camminata, iniziai a pensare: io sono venuta a fare volontariato, stavo facendo del bene, perché è successo questo a me? Qual è la mia colpa? È un caso che sia stata presa io e non un’altra ragazza? È un caso o qualcuno lo ha deciso? Queste prime domande credo mi abbiano già avvicinato a Dio, inconsciamente. Ho iniziato da lì un percorso di ricerca interiore fatto di domande esistenziali».
«Il passaggio successivo è avvenuto dopo quella lunga marcia, quando già ero nella mia prigione; lì ho iniziato a pensare: forse Dio mi ha punito. Forse Dio mi stava punendo per i miei peccati, perché non credevo in Lui, perché ero anni luce lontana da Lui». In una notte di prigionia in Somalia, dopo un bombardamento, le prime preghiere. «A un certo punto ho iniziato a pensare che Dio, attraverso questa esperienza, mi stesse mostrando una guida di vita, che ero libera di accettare o meno. Ho pregato tantissime volte Dio affinché rafforzasse la mia fede per quello a cui sarei andata incontro, che rafforzasse la mia fede per affrontare tutte le offese che avrei ricevuto».