Coronavirus: la scuola a distanza funziona, ma non è per tutti
Luca ha 10 anni e aspetta ogni giorno il collegamento con la scuola. È il momento divertente della giornata passata in casa. Sì, il momento bello è la scuola che si chiama così, ma non è davvero come andare in classe. «Mi piace vedere gli altri e le maestre, ma non è come essere davvero a scuola» spiega. La differenza c’è. La didattica a distanza è stata attivata per questo bambino che vive in Emilia-Romagna. Non è così per tutti e non per tutti è stato semplice far partire le lezioni.
Il problema si chiama digital divide e non è solo tecnologico, ma anche sociale e culturale. Non tutti hanno connessione, non tutti hanno un computer o non tutti ne hanno abbastanza. Una famiglia con due o tre figli in età scolare e due genitori in smart working non è detto che abbia un pc a testa. Vero che si possono usare anche smartphone e tablet, ma non è la stessa cosa. Spesso le lezioni sono divise in orari della giornata diversi perché chi ha più figli possa far usare a turno il pc: la mattina le superiori, il pomeriggio le elementari.
Non tutte le scuole sono partite subito, ma di settimana in settimana sono aumentate quelle che hanno attivato le lezioni a distanza. Più facile per i ragazzi più grandi, medie e superiori, più complesso per i piccoli, ma anche le scuole elementari si sono mosse. Se nelle prime settimane sono solo arrivati i compiti a casa e, a qualche giorno di distanza, le soluzioni, dopo sono partiti i collegamenti. Sono rimaste però le schede da stampare (sicuri che tutti abbiano una stampante a casa?) e l’impegno dei genitori. Quello che era demandato alla scuola è diventato impegno personale, non solo nei compiti del pomeriggio. La didattica a distanza ha mostrato un’altra distanza che già molti fra insegnanti e associazioni di genitori hanno chiamato disuguaglianza: quella fra chi si può permettere mezzi e strumenti e chi non può farlo, quella fra chi ha tempo da dedicare ai figli e chi non può averne.
Ciò detto, le videolezioni funzionano. «Sono un appuntamento, un modo per scandire le giornate e rendere reale la presenza scolastica. Non basta avere i compiti da fare perché un bambino si senta coinvolto e impegnato dalla scuola» spiega Francesca che ha un figlio alle elementari. «Per questo tipo di scuola però devo essere preparati anche i genitori con indicazioni pratiche e devono poter gestire mezzi che non tutti hanno in casa».
Per gli insegnanti delle superiori e delle medie i primi problemi sono valutazione e attenzione. Non si possono fare compiti in classe e non si possono vedere tutti gli studenti insieme. «Il primo problema che ho sono i voti. Loro vogliono voti ma noi non li possiamo mettere. Primo perché nei lavori da casa sono seguiti dai genitori e finisce che metti il voto alla mamma o al papà mentre altri non hanno nessuno, spesso nemmeno un computer tutto loro. È come valutare un compito in classe che alcuni hanno fatto con il libro davanti e altri no» aggiunge una collega. «Altra difficoltà: mantenere l’attenzione. Non la reggono. Si distraggono più che in classe».
Alle scuole elementari i problemi sono altri. «Non far rimanere indietro i bambini che lo sono già per altri motivi», spiega una maestra, «Non faccio videoconferenze e non mando schede da stampare, perché voglio che tutto sia fattibile dai bambini stessi è raggiungibile anche da chi ha solo un tablet. Mando video miei su youtube, schede, mie o da libri, fattibili sul quaderno, lavori vari. Mi inviano tutto con foto via mail. Ho chiamato al telefono chi ha più problemi, molti stranieri con condizioni economiche faticose, ma so che il disagio sociale non l’ho colmato. Si acuisce ogni giorno e ogni problema peggiora. La scuola dell’obbligo non insegna solo materie didattiche, insegna soprattutto a stare al mondo e senza contatto quello non si può fare».