Ema Stokholma: mia madre, vivere con «il mostro in casa»
Questo articolo è pubblicato sul n. 8 di Vanity Fair, in edicola fino al 26 febbraio
Per il mio bene» me lo diceva mia madre, quando ero bambina e mi spiegava perché mi stava picchiando.
«Per il mio bene» sono scappata di casa, quando avevo quindici anni.
«Per il mio bene» ho scritto questo libro, per raccontare la mia storia e farmi testimone, sperando che quello che è successo a me e a mio fratello Gwendal non debba capitare ad altri bambini.
Oggi la maggior parte della gente mi chiama Ema Stokholma, la mia vita somiglia molto a quella che avevo sognato. La mia passione più grande, la musica, è diventata il mio lavoro. Ho una casa dove vivo col mio cane Jordan. Ho una nuova famiglia composta da pochi amici e da mio fratello. Ci eravamo persi, io e lui, ci siamo ritrovati.
Prima tutti mi chiamavano Morwenn Moguerou, che è il nome che mi ha dato mia madre quando sono nata. Un nome bretone, come lei, che suonava strano a Romans-sur-Isère, la cittadina della Francia del Sud, tra la Provenza e i monti, dove ho passato i primi dodici anni della mia vita. Gli anni più brutti. Eravamo noi tre, io, Gwendal e nostra madre – nostro padre se ne era andato prima che io nascessi – in una casa dove regnava il silenzio quasi sempre.
Quasi. Perché quando mia madre si trasformava in un mostro riempiva tutto lo spazio con urla e botte. Per questo, quando ero bambina, non mi sentivo al sicuro in nessun luogo. Lo avevo imparato molto presto, insieme all’alfabeto e le tabelline, forse anche prima. Poteva accadere a casa, durante una passeggiata, in piena notte, o la mattina mentre andavamo a scuola in macchina. Di solito non c’era un motivo preciso. In quei momenti spesso mi parlava di sesso e mi accusava di fare o pensare cose che non potevo nemmeno capire. Mi infliggeva umiliazioni fisiche ma anche psicologiche. Come il giorno in cui mi ha portato sul grande ponte sull’Isère e che io attraversavo ogni mattina per andare a scuola e mi ha ordinato di saltare nell’acqua, «per il mio bene», il suo bene, per il bene di tutti. Ma anche in quel momento, anche in quel dolore, io sognavo, pensando alla vita bellissima che mi aspettava lontana da lei, non appena sarei stata abbastanza grande. E così non mi sono buttata. È passato di lì un uomo che la conosceva, si è fermato a parlare, lei si è mostrata normale. Quell’uomo non ha mai saputo che mi ha salvato la vita, forse non lo saprà mai.
Quando avevo dodici anni abbiamo traslocato per andare al Nord, in Bretagna, in una città più grande, abbiamo cambiato le abitudini quotidiane, ma il mostro è peggiorato. Io sono diventata un’adolescente ribelle, scontrosa con i prof ma circondata da amici, che per lo più venivano da situazioni familiari difficili. Provavo a compensare la violenza che subivo con il loro affetto. Stavo spesso fuori casa e questo mi ha aiutato a capire che potevo essere indipendente. Per questo a quindici anni, quando sono venuta a sapere della mia seconda bocciatura a scuola, proprio mentre la sera, tornata a casa, il mostro si sfogava sul mio corpo, ho giurato che non lo avrei più permesso, e il giorno dopo sono scappata di casa.
Non era la prima volta che provavo a fuggire, lo facevo da quando avevo sei anni, ma mi avevano sempre fermata, trovata, riportata indietro. Stavolta no. Stavolta ho preso un treno, sono arrivata a Parigi, ho preso un altro treno. Andava a Roma, dove mio padre è nato e dove è tornato a vivere.
Quando sono arrivata in Italia non ero ancora adulta ma ho affrontato subito la vita. Da mio padre sono stata pochi mesi, poi sono andata a vivere da sola. Mi sentivo una fuggitiva, una sopravvissuta. Ho attraversato diverse vite prima di trovare un equilibrio. Ho conosciuto l’amore, la delusione, la povertà, la solitudine, ma ho sempre pensato che nulla fosse doloroso e difficile quanto quello che avevo passato da bambina.
Poi è arrivato anche il bello, il lavoro da dj e poi quello da speaker in radio, le esperienze televisive e questo libro. Era nella mia testa da un po’ ma non sapevo da dove cominciare. È arrivato dopo una notizia di cronaca che raccontava di un bambino morto perché aveva preso troppe botte dal patrigno. Una storia che mi ha sconvolta perché nessun adulto aveva evitato questo orrore. Una storia che mi ha ricordato la mia e che mi ha fatto rabbia al punto da mettermi a scrivere. Non sono più riuscita a smettere. Ho passato anni a chiedermi «com’è possibile?», a domandarmi perché nessuno si accorgesse del mostro, di quello che faceva a me e Gwendal. A vedere le teste voltarsi dall’altra parte, anche davanti ai lividi, a comportamenti chiaramente patologici, perché «una madre sa sempre quello che è giusto», «perché non bisogna entrare nel rapporto tra genitori e figli». Spero che questo mio libro possa aiutare gli adulti ad accettare che purtroppo le cose non stanno sempre così, che la violenza esiste, anche a casa, anche da parte di un padre o di una madre, e che è possibile accorgersene e fermarla. Spero che questo mio libro possa invitare gli adulti a guardare davvero negli occhi dei bambini.