Sebastiano: «I maschi anoressici esistono eccome»
«Sto raccontando sempre più spesso la mia storia perché non ci sono ragazzi che lo fanno e invece esistiamo». Sebastiano ha 29 anni e ha sofferto di anoressia e bulimia dai 16 ai 22. Adesso, dopo la laurea in filosofia con una tesi proprio sui disturbi dell’alimentazione, oltre al suo lavoro nel mondo della comunicazione all’Università di Vercelli fa il volontario all’Associazione Mi Nutro Di Vita gestendo con altri lo sportello di ascolto sulla malattia aperto nella sua città Biella.
Ci sono tre casi al maschile di disturbi dell’alimentazione ogni 7 donne malate, ma sono molti più nascosti delle ragazze.
Parla di tutto invece Sebastiano perché è anche parlandone che si esce dalla malattia, ma non racconta quello che faceva lui «perché so che chi è malato fa confronti». Sono confronti di peso e di abitudini che possono diventare spunti per dimagrire ancora nelle persone in cui è la malattia a prendere decisioni e non più l’individuo.
«Per me», racconta, «è stato il fatto di veder riconosciuta la malattia perché i ragazzi erano pochi e ancor meno quelli che volevano raccontare quello che avevano e chiedevano. Alcuni ospedali o cliniche non capivano come io, da uomo, potessi essere anoressico». Da qui sono venute diagnosi sbagliate di malattia mentale e farmaci per altre patologie. Il ragazzo, per i medici, non poteva essere anoressico anche se, racconta ora Sebastiano, «non c’era nessuna differenza con la ragazza anoressica ricoverata nello stesso reparto».
Anche fuori dall’ospedale la difficoltà per lui è sempre stata far comprendere che da uomo soffriva di una malattia che tutti gli studi declinavano solo al femminile. «Mi chiedevano se ero sicuro di essere malato o se ero omosessuale». Alla famiglia come alla scuola è però stato chiaro subito che qualcosa stava succedendo quando la sua perdita di peso è arrivata velocissima.
«All’inizio non volevo essere curato, ma non si può parlare di volontà, è la malattia che decide e non vuole che tu ti faccia curare. All’inizio ero euforico poi la malattia è diventata un peso. Dopo un tentativo di suicidio ho cominciato il mio percorso, prima in psichiatria, poi al centro delle Molinette di Torino, ma mi è stato negato il day hospital con il pasto assistito perché da uomo avrei destabilizzato l’ambiente tutto femminile. Ho ottenuto solo il pasto assistito una volta a settimana, ma mangiavo da solo, in una sala separata rispetto alle ragazze con un tirocinante che mi guardava».
Per Sebastiano è stato positivo invece il percorso fatto con psicologi e nutrizionisti alle Molinette. Questo lo ha convinto ad andare in una clinica specializzata di Varese. Per entrare ha dovuto dimostrare di essere malato e di voler guarire davanti a una commissione e attendere mesi perché c’erano altri due ragazzi e lui avrebbe occupato una stanza da solo togliendo il posto a un’altra persona.
Non è stato uno di questi passi a portare Sebastiano alla guarigione. «C’è qualcosa di tutti, anche di quelli sbagliati nel percorso. Sono tante piccole cose di cui a volte non ti accorgi neanche». Quello che a lui è rimasto addosso di più è il rapporto con gli altri pazienti, più ancora che quello con i medici. Una certezza però c’è: lui «è una malattia e come tale va curata, in ospedali o con terapeuti, non basta la famiglia, i genitori devono fare i genitori, non servono dal punto di vista della cura. Il click nella testa della guarigione non scatta dal nulla, ma è il risultato di tutto quello che hai fatto nel tuo percorso che può essere molto diverso da quello di un’altra persona».
Il suo è un no alla ricerca ossessiva della causa della malattia. «Non serve a guarire. Io ho visto a distanza di anni dalla guarigione le cause della mia malattia e mi è stato chiaro che hanno influito bullismo e isolamento, ma sul momento non ci sono le parole per raccontarlo, diventi muto, il corpo diventa il tuo linguaggio».
Adesso invece il linguaggio è quello delle parole che usa per aiutare gli altri da volontario, con la speranza che diventi un lavoro a tempo pieno anche attraverso il libro che ha scritto sulla sua esperienza, Corri corvo corri, pubblicato da VentiTrè Edizioni. «Deve essere normale poterne parlare anche al maschile e servirebbe avere più centri e possibilità per spiegare alla famiglie quello che sta succedendo ai loro figli, per dare loro i mezzi per comprendere e farli sentire compresi senza avere sulle spalle il peso del far guarire il malato, cosa che non compito di una famiglia o degli amici».