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Brunori Sas: «Le parole che non ti ho detto»

Lavorava tra le macchine come parcheggiatore e si è ritrovato a guidare un mestiere che non avrebbe mai immaginato di poter fare. Storia di un artista atipico che è tornato a vivere da dove era fuggito e che con «Cip!», il suo quinto album, suonerà nei palazzetti italiani parlando con un padre che non c’è più

Pensieri oziosi di un ozioso: «Non è che sia semplicemente pigro, io credo di essermi proprio reincarnato in Jerome K. Jerome. Tendo a non fare le cose quando so che devo espletare cento impegni, a perdere tempo, a evadere dagli obblighi. Volevo vivere di musica per non avere mai un mestiere e mi sono ritrovato dentro un lavoro vero. Non me lo sarei mai immaginato, ma ho trovato una soluzione. Affronto la mia condizione come se non mi appartenesse, come se non fossi Brunori, come se comporre canzoni non rappresentasse gran parte della mia esistenza. È una forma di distanza, un paradosso che fino a ora mi ha fatto godere di una certa spensieratezza, anche nei momenti in cui come adesso sono sotto pressione». Mentre Cip!, il suo quinto disco, prende il volo, Dario Brunori («la mia età/non è questa/ è almeno la metà») è arrivato a 42 anni. Fino ai 30 non aveva idea di come sarebbe andata a finire: «Dopo essere stato bocciato al test per entrare a Scienze della Comunicazione, mi ero laureato a Siena in Economia e Commercio, suonavo la chitarra con alcuni amici in un gruppo che abbracciando l’eufemismo definirei alternativo, producevo melodie per i cartoni animati delle tv locali e dopo qualche espediente senza costrutto mi ero dato alla carriera di parcheggiatore. Mi sembrava una manna, cullavo l’illusione romantica di un’occupazione notturna in cui sarei entrato a contatto con un’umanità varia e passando di gabbiotto in gabbiotto, ritirando il denaro dai vigilantes e sostituendo una volta un neon e l’altra un’asta difettosa, rimandavo l’appuntamento con la realtà».

Quale realtà?
«In Calabria mio padre aveva una rivendita di materiale per costruzioni, la Brunori Sas. Voleva tirare i remi in barca e mi chiese di tornare a casa per prendere in mano la ditta di famiglia».
E lei?
«Rifiutai. È vero che con la laurea non si guadagnava niente e che oggi come ieri nessuno voleva assumere i laureati considerati indistintamente un branco di potenziali rompicoglioni buoni soltanto a rivendicare i loro diritti, ma io volevo provare a fare musica».
Lui come la prese?
«Con grande dolore. Poi un giorno come un altro squillò il telefono. Dall’altra parte, la voce di mia zia. Disse “Tuo padre non sta bene” e io capii in un istante che babbo se ne era andato. Se si fosse trattato di un raffreddore mi avrebbe chiamato mia madre».
Cosa fece?
«Tornai a casa. Babbo non c’era più e a me sembrava impossibile. Certo, fumava come un pazzo e nonostante i medici glielo avessero proibito, lui continuava a farlo di nascosto. Certo, amava molto la tavola e nonostante i medici gli avessero consigliato di regolarsi, lui non si era mai regolato. Certo, non si risparmiava e nonostante i medici lo avessero pregato di risparmiarsi, lui continuava a darsi come se niente fosse. Ma nonostante tutto, per me babbo era immortale. Ero certo che non se ne sarebbe mai andato e invece, quell’idea mitica crollò senza preavviso».
In Cip! canta di un padre che se ne va da un giorno all’altro senza avvertire.
«Parlo del padre di un mio amico, ma chiaramente parlo anche di me. Del mio ricordo di allora, delle cose che avrei voluto dirgli e non gli ho detto, del passaggio repentino dalla bambagia senese al vendere mattoni ai muratori calabresi. Accadde tutto in un amen. La morte di mio padre fu uno choc, ma anche se pensandoci un po’ mi sento in colpa, la sua scomparsa fu anche un motore».
Un motore?
«Lo scuotimento necessario a imporre ordine nella mia vita, a trascinarmi nel mondo reale, a darmi una scossa. Serve a tutti, prima o poi, una scossa. Ti aiuta a porti domande fondamentali».
Che domanda si pose lei?
« “Vuoi fare davvero il cantante?”».
E cosa si rispose?
«Che non avevo più un secondo da perdere. Così cominciai a scrivere le mie prime canzoni di notte, tornando dal lavoro, ripercorrendo il mio passato. Avevo lasciato il Sud pensando di non tornare più. Ritrovarmi a casa fu come recuperare il mio ieri. Vidi le vecchie foto di famiglia, ricordai cose che avevo sepolto, feci riaffiorare quello che in superficie non si scorgeva. Si trattò della mia personale ricerca del tempo perduto».
Fu dura?
«Dall’attività di mio padre dipendeva la sussistenza economica di mia madre e i miei fratelli, entrambi ingegneri, erano lontani e non potevano occuparsene. Ma soprattutto ero chiamato a sostituire una figura forte che nessuno accettava non ci fosse più. I muratori mi chiamavano Bruno, come lui. Era una specie di transfert».
Perché aveva lasciato la Calabria?
«Perché volevo provare a suonare e nonostante l’esempio di mia madre che insegnava musica in una scuola media e proveniva da una famiglia in cui spartiti e note erano di casa, realizzare il mio sogno in Calabria mi sembrava lunare. Per cercare i dischi, in un’epoca in cui Internet ancora non esisteva, dovevo andare fino a Paola o a Cosenza. E ogni volta era un viaggio».
I suoi erano contrari all’ipotesi che suonasse?
«I miei erano pragmatici e la carriera di chitarrista, quella che volevo intraprendere, era il manifesto della precarietà. Così non essendo in grado, per carattere, di far prevalere il mio desiderio in maniera violenta feci un compromesso: “Vado a studiare, mi laureo e poi vediamo cosa succede”. In fondo sono sempre stato un bravo mediatore: Economia e Commercio però si rivelò una sofferenza dalla quale venni fuori con molta fatica e una tesi mignon, la più breve, credo, della storia dell’università italiana. Il caso Armani».
Giorgio?
«Un omonimo che aveva acquistato per primo il dominio Armani.it e poi si era trovato a mal partito perché l’Armani più celebre, Giorgio, ne rivendicava il possesso».
Mai pensato di mollare?
«Avevo dato a mamma e babbo la mia parola, avevo assicurato che mi sarei laureato e purtroppo quando faccio una promessa, per educazione, la mantengo. Con pathos calabro, un’ombra di mitomania e un’aria di tragedia annessa perché non c’è cosa che faccia, anche quando è semplicissima, che non tenda ad ammantare dell’aria dell’impresa».
Come è stata la sua educazione?
«A casa nostra il calabrese non esisteva. Si parlava in italiano. Al paese quando non mi esprimevo in dialetto mi dicevano: “Brunori, nun fa tanto ’u filosofo” che comunque, come concetto, non mi dispiaceva. Era come dire: non ti mettere dalla parte dei professori, resta al di là della cattedra, non darti un tono”».
Che famiglia era la sua?
«Una famiglia spuria in cui l’Emilia si incontrò con la Calabria. Il padre di mio padre, una specie di asso dei laterizi e degli altoforni, era sceso a Sud da Imola alla fine degli anni ’50. Era uno dei pochi a fare quel lavoro e un gruppo di imprenditori calabresi che avevano una cava di argilla gli aveva proposto di trasferirsi per fornir loro una modernità che in Calabria era del tutto sconosciuta. Paga buona, il sole, il fascino del forestiero. Abituato a spostarsi per lavoro e a impiantare forni ora in Umbria, ora in Sicilia, non ci aveva pensato un solo secondo e si era trasferito di corsa romanzando la Calabria di allora come se fosse un Paradiso delle vergini. Del luogo si era innamorato a prima vista anche se a mio padre, marchigiano, nei rari momenti di serietà, raccontava sconvolto anni dopo dell’arretratezza che aveva trovato al suo arrivo: i bracieri al centro dei saloni, le famiglie a dormire in una sola stanza, le case fatte di paglia e di terra, i bagni in mezzo al prato, un’unica cassapanca ai piedi del letto che recitava anche da frigorifero».
I Brunori erano imprenditori.
«Di impronta quasi olivettiana. Convinsero tanti emigrati a tornare. Il loro progetto era legato a un’imprenditoria dal volto umano in un contesto in cui, almeno negli anni ’60, i muratori, prima di imbracciare calce e cazzuola, erano stati a lavorare dalle 4 di mattina alle 8 nei campi».
In Calabria, alla fine, lei è tornato a vivere.
«A San Fili, tremila persone, il posto in cui credo resterò per sempre. Questo contesto mi dà la giusta serenità per concentrarmi. Lo conosco, ci sono cresciuto e mi appartiene, così come mi appartiene una certa abitudine alla noia. Penso che nel mio percorso, annoiarmi mi abbia aiutato tantissimo. Se fossi cresciuto a Milano, probabilmente, non avrei mai fatto il musicista».
Come mai?
«Per due motivi. Uno: per creare hai bisogno di trovare uno spazio per la contemplazione e in un posto in cui gli stimoli sono tantissimi è più difficile. Mi reputo un superficiale, mi distraggo facilmente, ho bisogno di ritrovare il silenzio in cui anche per solipsismo sono cresciuto».
E il secondo?
«La competizione. In città la specificità di ognuno di noi deve eccellere per condizione naturale. Per farsi ascoltare, forse persino da se stessi, si deve esagerare. Io non esagero, se non in certi ambiti. Mi ritraggo, mi schermisco. In città poi avrei trovato quindicenni che suonavano da dio e mi sarei nascosto per la vergogna. Da me ero il reuccio dell’assolo e un reuccio non si pone il dubbio mai che esistano altri re».
Cosa c’è in Cip! di lei?
«In questo disco, Cip!, più che nei precedenti, c’è molto del mio modo di vivere in Calabria. Per la prima volta, scrivendolo, mi sono accorto che stare lì mi mette in contatto con tutto ciò che in una realtà metropolitana non riuscirei a vedere. Vivere nella natura mi permette di non considerare il mondo come un esclusivo teatro per le vicende umane. C’è il silenzio, la natura, la montagna alle spalle. È una montagna viva e puoi sentirla quasi respirare. È un mondo immutabile, di impronta millenaria. Per riscoprirlo ho camminato tanto, ho fatto trekking, mi sono fatto influenzare dal territorio e credo che tutto questo abbia contribuito a creare il tono di Cip! che è più pacificato dei precedenti, più sereno, meno amaro. In questo disco faccio pace con me stesso. Ho imparato ad accettare cose che prima faticavo ad accettare».
È rassegnazione?
«È voglia di abbracciare gli altri, vitalità, desiderio di non soffrire. Non significa che mi vada bene tutto quel che vedo, ma sono consapevole che certe cose, anche se non rientrano nel mio modo di pensare, succedono. Stupirsene è un po’ infantile e soffrirne o farmi sequestrare da un’emozione negativa, una forma di masochismo e di perdita di tempo alla quale non voglio più piegarmi. Accettare che qualcosa che ho sempre reputato brutto accada significa capire anche che per ottenere il bello si deve passare per il brutto. Forse sono diventato semplicemente maturo o per essere più sinceri, vecchio».
Cip!, citazione: «Capita così: che un bel giorno ti guardi allo specchio e ti scopri più vecchio, di parecchio».
«Scoprirmi vecchio non è stato un problema. Mi sento così fin da quando mi sono riconosciuto per la prima volta: “Chi è ’sto vecchio che mi sta guardando?”, mi dicevo. Ed ero io, sempre io».
Ora vive ai piedi di una montagna, ma da bambino la montagna le metteva paura.
«Per me Aspromonte era sinonimo di sequestro di persona, di malavita, di terrore. Immaginavo le prigioni nella roccia, le catene, le cronache e la foto di Cesare Casella proiettata nei nostri tinelli da tutti i telegiornali giocavano a favore dei miei timori, ma va detto che sono sempre stato un bambino pauroso, pudìco, felice e a suo agio soprattutto nella solitudine. Non c’era uno sport in cui eccellessi e anche con le ragazze a prevalere era comunque il mio lato timido. Ho sempre avuto terrore dell’aggressività».
Lei era il chitarrista da falò.
«Quello che suonava mentre gli altri si baciavano. Ma fare il chitarrista era una mia aspirazione fin dall’adolescenza, dalle mie parti ero famoso perché ero l’unico a saper riprodurre gli assoli dei Gun’s, dei Metallica o dei Pink Floyd e in men che non si dica ero entrato subito in contatto con gli altri tipi “strani” del mio borgo, quelli che nella provincia ferma agli anni ’80 ascoltavano Hendrix, i Led Zeppelin e naturalmente i Doors. Se vedevo Sanremo e le garantisco che non mi perdevo una serata, magari lo facevo di nascosto perché non marcava benissimo. In casa nostra, all’epoca, su Sanremo, facevamo le pagelle e naturalmente imbrogliavamo anche. Per certe canzoni poi, penso a Perdere l’amore, perdevo letteralmente la testa. Il primo colpo di fulmine sanremese lo provai per Il clarinetto di Renzo Arbore: senza capire niente dei suoi mille doppi sensi».
In Cip! si augura di scrivere una canzone popolare.
«Perché la mia parte nazionalpopolare è stata sempre viva e in ogni caso in Cip!, in un momento in cui la frattura tra un mondo che pretende la patente intellettuale e il pop è profonda, non mi dispiaceva l’idea di giocare in quel campionato».
(Si avvicinano due ragazzi, vorrebbero una foto: «Assolutamente sì, bravi, voi siete i figuranti che abbiamo pagato per far vedere che sono famoso? Poi per il compenso ci mettiamo d’accordo in separata sede».) Ride, scatta, ordina un Negroni.
Christian Rocca sostiene che lei sia il cantore entusiasta dell’insoddisfazione cronica.
«Lui mi definisce il disincantautore, ma in Cip! faccio pace con me stesso e recupero l’incanto».
Il disincanto e il cinismo sono parenti?
«Il disincanto è il bivio: osservi una cosa e puoi decidere di trasformarla in lamentela o in luce. Se un’illusione cade non è detto che si debba cadere nella disillusione. Anche il cinismo in fondo è un’illusione perché un cinico altro non è che un deluso che non accetta il franare dell’illusione».
Cosa la ispira?
«Un freddo che mi attraversa. Quando muore qualcosa dentro di me, in quel preciso istante, nasce un’idea. La canzone, in un certo senso, è una specie di testamento».
I suoi testi piacciono ai critici, qualcuno ci vede la poesia.
«Sono bravo nell’intuizione e nell’improvvisazione, meno nella scrittura, soprattutto a teatro. Aspetto sempre che l’improvvisazione mi faccia visita perché pensare è un’attività che mi affatica e alla fine mi rende infelice».
Lei non vuole esserlo.
«Puoi avere tutte le ragioni del mondo, ma se sei infelice avrai sempre torto».
E cosa la rende felice?
«Rimettere insieme i pezzi, trascorrere il tempo con alcune persone e soprattutto ridere bene perché forse lo saprà, si può ridere anche male».
Ha fatto i conti con il suo senso di colpa?
«Non del tutto, ma ci sto lavorando da alcuni anni. Alla fine penso che un po’ di senso di colpa sia pure giusto perché qualche colpa ce l’abbiamo tutti. Il senso di colpa mi tiene collegato agli altri, a patto che non mi castri, le dico la verità, mi sta anche bene».
Ha un desiderio?
«È puerile, ma mi piacerebbe parlare un’ultima volta con mio padre e dirgli: “Babbo, hai visto che non è andata poi così male?”».

In alto, il video di backstage del servizio scattato per Vanity Fair.

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Brunori Sas Tour 2020 – Le date

Sabato 29 febbraio 2020, Vigevano @ Palasport
Martedì 3 marzo 2020 – Jesolo (VE) @ PalaInvent
Sabato 7 marzo 2020 – Torino @ Pala Alpitour
Venerdì 13 marzo 2020 – Assago (MI) @ Mediolanum Forum
Domenica 15 marzo 2020 – Casalecchio di Reno (BO) @ Unipol Arena
Sabato 21 marzo 20202 – Firenze @ Mandela Forum
Martedì 24 marzo 2020 – Ancona @ PalaPrometeo
Venerdì 27 marzo 2020 – Roma @ Palazzo Dello Sport
Sabato 28 marzo 2020 – Napoli @ PalaPartenope
Venerdì 3 aprile 2020 – Bari @ PalaFlorio
Domenica 5 aprile 2020 – Reggio Calabria @ PalaCalafiore

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