James McAvoy, ultimo degli X-Men: «Quando guardavo gli aerei da piccolo (con nonna)»
Appena entra nella suite 104 dell’hotel Dorchester di Londra, dopo un fugace «buongiorno» e prima di qualsiasi altro convenevole, James McAvoy fruga ogni angolo alla ricerca del minibar. Scovatolo dentro un anonimo mobiletto marrone, l’attore scozzese agguanta un barattolo di noccioline. Il che deve procurargli parecchia gioia perché quasi urla: «Evvai!». Poi, con il suo tesoro fra le mani dalle unghie rosicchiate, si accomoda in poltrona. Su quella poltrona, comodo non ci starà per niente: a ogni domanda un cambio di postura, un accavallamento delle gambe, una sistemazione dello stivaletto destro, tolto e rimesso nel giro di mezza risposta. Senza mai perdere di vista le noccioline, che il 40enne continua compulsivamente a portare alla bocca.
L’irrequietezza dei gesti fa a pugni con lo sguardo serafico di chi nella vita ne ha viste tante, e con la vita ha fatto pace: il divorzio nel 2017 dalla collega Anne-Marie Duff, con cui ha un figlio di nove anni, Brendan, è niente in confronto alla precarietà della sua infanzia. Abbandonato dal padre a sette anni, data la salute cagionevole della madre (che è scomparsa nel 2018), James è cresciuto con i nonni a Drumchapel, quartiere proletario e difficile nella periferia di Glasgow.
Da lì, di strada ne ha fatta parecchia: ha stregato le donne di tutto il mondo in Becoming Jane. Ha sfiorato il Golden Globe con Espiazione. È diventato una star mondiale nei panni di Charles Xavier, alias Professor X, il telepatico e carismatico protagonista dell’epopea degli X-Men, di cui vedremo a breve un nuovo episodio. Il 6 giugno, infatti, esce Dark Phoenix, attesissimo sequel di Apocalisse e dodicesimo film della saga.
Dodicesimo e ultimo?
«Non credo. Forse sarà l’ultimo in cui ci vedrete tutti assieme: Michael Fassbender, Jennifer Lawrence, Nicholas Hoult, Sophie Turner e io. Noi come cast potremmo essere finiti, ma gli X-Men no: risorgono sempre, come la Fenice che dà il titolo al nuovo film».
È Sophie Turner, la Sansa Stark del Trono di spade, a interpretare questa Fenice Nera, di cui a un certo punto Fassbender-Magneto dice: «Vedo del male in lei».
Quasi si fosse sentito chiamato in causa, irrompe nella stanza – e nella conversazione – un Michael Fassbender focoso di capelli, barba e temperamento: «Non mi piace la parola “male”», dice stringendo la mandibola squadrata. Ce n’è forse una che preferisce? «Parlo più volentieri di lato oscuro, perché lo capisco: tutti ne abbiamo uno. Il male, invece, non so che cosa sia: il peggiore criminale del mondo può essere un sociopatico a cui manca la capacità di empatizzare». Il lato oscuro del suo personaggio, Magneto, è piuttosto evidente: pur di proteggere i mutanti dalla cattiveria umana, talvolta cede alla violenza. «Sì, lui è un tipo tribale: sentendosi escluso dagli umani, li esclude a sua volta. Fonda una comunità per mutanti rifugiati sull’isola di Genosha. Mossa non tanto diversa da quanto stanno facendo certe etnie e certi Paesi al giorno d’oggi». James McAvoy annuisce: «La stessa Brexit è un modo, per il Regno Unito, per affermare la propria differenza dal resto dell’Unione Europea».
James, è un bene o un male secondo lei?
«Una tragedia: non farà felice nemmeno chi l’ha votata. È stata una campagna politica fondata sulla falsa premessa della necessità di un sovranismo totale e alimentata da una totale disinformazione».
Di che cosa, invece, avrebbero bisogno gli inglesi?
«Come tutti i popoli, di gentilezza e accettazione reciproca. È un po’ quello che il mio personaggio tenta di fare con i mutanti: il Professor X, al contrario di Magneto, spinge per un’integrazione con gli umani».
Xavier è un telepatico. Se lei avesse quel potere come lo userebbe?
«Per stanare le bugie dei politici: aprirei un canale YouTube e un account Instagram in cui denuncerei ogni singola falsità proferita».
In un certo senso è quello che il Washington Post prova a fare con «Fact Checker’s», un database che computa tutte le menzogne di Donald Trump: pare abbia superato le 10 mila dall’inizio del mandato, con una media di 23 al giorno.
«Il problema è questo: c’è sempre qualcosa che spaventa la gente. Quando la gente ha paura trova conforto nell’odio. E ci sono politici manipolatori che capitalizzano questi sentimenti».
Lei stesso una volta ha dichiarato di essere dotato di una grande capacità manipolativa.
«Me ne sono servito spesso, durante i primi provini».
Come?
«Se pensavo ci fosse qualcosa di stonato nella sceneggiatura, non lo dicevo immediatamente al regista. Prima magnificavo le qualità del copione ed elargivo complimenti. Solo alla fine, introducevo il “ma”, spiegando il punto debole».
C’è chi sostiene che tutto quello che in una frase viene prima del «ma» non conti niente.
«Con registi e sceneggiatori il “ma” funziona: loro vogliono essere amati».
Lei no?
«Come uomo sì, come attore non mi importa un granché. Mi basta poter continuare a raccontare storie».
Le prossime che racconterà?
«A settembre uscirà It: Capitolo 2. La vicenda è ambientata 27 anni dopo il primo film. A ottobre, forse, sarò in teatro, a Londra, nei panni di Cyrano de Bergerac».
È sul palcoscenico che ha cominciato la sua carriera.
«Sì, al liceo. Poi, dopo la maturità, sono stato indeciso se iscrivermi all’Accademia navale o a quella di Arte drammatica».
Si chiede mai come sarebbe la sua vita se avesse scelto la Marina?
«Probabilmente avrei comunque finito per recitare».
Si sente a suo agio a interpretare le vite degli altri?
«Osservo la gente da quando ho sette anni. Ho sviluppato una buona dose di empatia. La recitazione mi permette di incanalarla».
Ha cominciato a osservare gli altri proprio nel momento in cui suo padre è andato via di casa.
«Forse perché mi sentivo diverso. Ero molto consapevole delle cose brutte della mia vita. C’erano tanti aspetti che non mi piacevano, ma che non riuscivo a cambiare perché, in un certo senso, volevo conformarmi alla massa».
Quando ha smesso di tentare di omologarsi agli altri?
«Quando mi sono iscritto alla band della scuola: lì ho conosciuto tante persone che, come me, erano un po’ diverse. Ho capito che potevo essere me stesso e che sarei comunque stato al sicuro».
Silenzioso fino a ora, stretto nella sua giacca scamosciata, Fassbender punta gli occhi di ghiaccio verso McAvoy e riprende la parola: «La cosa che mi ha sempre attratto degli X-Men è che sono degli outsider, dei supereroi emarginati per la loro diversità. E tutti, almeno una volta nella vita, ci siamo sentiti dei diversi bisognosi di protezione». Poi, così come è arrivato, esce dalla stanza. E di scena. Lasciando al collega le battute di chiusura.
In questo ultimo episodio pare che a proteggere siano soprattutto le donne. Tanto che Jennifer Lawrence nei panni di Mystica suggerisce di cambiare il nome della comunità in X-Women.
«Le donne sono al centro in Dark Phoenix per volontà esplicita del regista. Il fumetto, pur dedicato a una figura femminile, la Fenice Nera appunto, vedeva un netto protagonismo maschile. Simon (Kinberg, il regista, ndr) ha detto: se la storia parla della Fenice facciamo che sia una storia sulla Fenice. Così Sophie Turner ha il ruolo principale, subito seguita da Jennifer Lawrence e Jessica Chastain».
Lei si è mai sentito protetto da una donna?
«Dalla mia fidanzata (l’ex attrice poi assistente di produzione Lisa Liberati, ndr) ogni volta che sono malato. E da mia nonna durante tutta l’infanzia».
Che cosa faceva la signora Mary per farla sentire al sicuro?
«Quando non riuscivo a dormire, si alzava con me. Mi portava davanti all’aeroporto di Glasgow. E stavamo lì, per mano, tutta la notte, a guardare gli aerei decollare e atterrare».