Il villaggio dove nessuno ha paura
Ramanamma Gudusa sorride radiosa appena smontiamo dal fuoristrada che ci ha portati fino al suo villaggio, Geddamputtu. Siamo in Andhra Pradesh, il quinto Stato più grande dell’India, e più precisamente nella provincia di Paderu, che fa capo al distretto di Visakhapatnam dove si concentra il più alto numero di zone tribali. Ramanamma appartiene alla stirpe dei Konda Dora e vive nelle montagne a ridosso della foresta, dove gli inverni sono rigidi e le estati miti in confronto al bollore soffocante delle valli. Vista da lontano sembra un’indiana come tante, con il suo sari arancione e i capelli candidi raccolti all’indietro. In realtà discende, come tutti i suoi compaesani, dalla più antica genia autoctona che abitava in India prima degli Arii, migrati nel Subcontinente dall’Asia Centrale costringendo gli indigeni a ritirarsi nelle zone più impervie dal secondo millennio avanti Cristo. E a guardarli bene si capisce perché gli antropologi fanno risalire le loro radici agli aborigeni australiani e della Nuova Guinea e agli africani giunti laggiù chissà quando e come.
Ramanamma non è la capo villaggio, ma quando ci sediamo in cerchio per fare conoscenza tutti le portano rispetto. «Ho più di settant’anni, non so esattamente quanti», dice, come se fosse la cosa più naturale del mondo non conoscere la propria età. «Qui non eravamo abituati a registrare le nascite», interviene Gangabhavani Muduva, 20 anni, maestra volontaria per i piccoli del villaggio, «fino a poco tempo fa non si scriveva quasi niente, ci affidiamo ancora alle tradizioni orali». Il suo volto placido intercetta lo stupore di chi ha viaggiato per ore in un traffico scalmanato per assistere all’inaugurazione della scuola sostenuta da Care & Share Italia, una ong di stanza a Mestre da tempo impegnata in India nel sostegno all’infanzia marginalizzata. Gli abitanti dei villaggi, prova a spiegare, vivono coltivando grano, lenticchie, caffè, pepe e zenzero. Non hanno una gran voglia di allontanarsi per sperimentare la modernità dei centri urbani, ma capiscono che, se non imparano a interagire efficacemente con il resto del mondo, c’è la possibilità concreta che la cultura, i riti e le tradizioni vengano spazzati via, perciò sono ben contenti che qualcuno si prenda la briga di insegnar loro qualcosa.
Nella complessa categorizzazione delle classi sociali indiane, i membri delle tribù sono gli ultimi degli ultimi, addirittura al di sotto della casta degli intoccabili. Il loro dialetto è incomprensibile per chi viene da fuori, perciò spesso succede che gli insegnanti mandati dal governo non riescano a interagire con gli alunni e dopo qualche giorno non si facciano più vedere in aula, con il risultato che gli studenti faticano a leggere e a scrivere. Negli anni Cinquanta l’allora primo ministro Jawaharlal Nehru diceva dei tribali: «Non ha senso cercare di trasformarli nelle nostre brutte copie. È gente che canta e balla e cerca di godere della vita per quello che è. Non sono fatti per chiudersi in Borsa, urlandosi addosso, e considerarsi civilizzati». Tutto vero ancora oggi, con in più un dettaglio che Nehru aveva tralasciato. Un elemento fondamentale della vita per i nati nel sedicente Primo Mondo, e per chi nel resto del pianeta si arrabatta a imitarli, è la paura. Al netto del grande tabù della morte, ognuno di noi convive quotidianamente con un discreto elenco di angosce, e uno dei nostri più forti ricordi è il momento in cui abbiamo preso coscienza della paura. Non la gente di queste tribù: loro non conoscono la paura.
Geddamputtu è il secondo villaggio che visitiamo. In mattinata, a Panasapalli, ci hanno accolti con una semplice e calorosa cerimonia danzante, ci hanno infilato al collo ghirlande di fiori e abbiamo camminato sotto una pioggia di petali lanciati da donne sorridenti. Quello che altrove sarebbe sembrato un siparietto per turisti, lì aveva la potenza inaudita della spontaneità. «L’unità è la nostra forza», ci hanno detto quasi in coro. «I ragazzi se ne vanno quando trovano lavoro a valle, poi però cercano di tornare perché qui ci prendiamo cura gli uni degli altri. Siamo una comunità, viviamo insieme, facciamo festa insieme, affrontiamo tutto insieme. Ma siamo sempre contenti di incontrare persone nuove».
La prima volta che ho fatto loro quella strana domanda, «di cosa avessero paura», nei loro occhi è subito affiorata una certa perplessità. «Le piogge non ci spaventano, perché la nostra è una buona terra», hanno provato a rispondere. «Forse la preoccupazione più grande ci arriva dal freddo quando si fa intenso. E dai cinghiali che a volte ci distruggono il raccolto». Ho insistito: tutto qui? Non temete che l’educazione scolastica allontani i vostri figli dalle antiche tradizioni? «Al contrario. Con la loro istruzione sapranno preservare meglio la nostra identità».
Nel pomeriggio, a Geddamputtu, provo a chiedere la stessa cosa a Ramanamma, la signora in arancione. «Io non ho paura di niente», risponde. «Nessuno di noi ha paura, perché abbiamo tutto quello che ci serve. Con un po’ di terra da coltivare e una casetta in cui stare, che cosa dovremmo temere? Qui viviamo felici». Mi sta di fronte con le mani appoggiate in grembo e, guardandola negli occhi, non ho dubbi sulla sua sincerità. Per scrupolo, si confronta con gli altri che le stanno intorno, parte una consultazione molto animata, al termine della quale Somanna Muduva, 58 anni, agricoltore, sentenzia: «Chi lascia la nostra terra inizia ad avere paura, ma noi qui siamo sereni, perché ci aiutiamo e ci adoperiamo per il bene comune».
Ramulaputtu è l’ultima tappa della giornata, anche lì la ong italiana è attiva per garantire ai bambini il diritto all’istruzione. E la risposta alla mia domanda è la stessa: «Finché stiamo nel villaggio, niente ci può spaventare». Dicono che le cose più belle della vita sono «partecipare alle nostre festività tradizionali, lavorare la terra, vedere i nostri figli studiare di modo che da grandi proteggeranno la tribù». Ogni tanto, ammettono, capita anche a loro di bisticciare, ma la risolvono così: «Se si tratta di una questione piccola, non ci rivolgiamo la parola per uno o due giorni, dopo di ché l’argomento è chiuso. Quando capitano dispute più articolate, allora ci riuniamo tutti insieme, finché l’assemblea dirime la lite». Se non è il senso della vita, ci va molto vicino.