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Come si fa a «prenderla con filosofia» e (così) a fiorire?

Gli ideatori del progetto Tlon con «PRENDILA CON FILOSOFIA. Manuale di fioritura personale», in libreria dal 28 gennaio, rispondono a una delle domande che ricevono più di frequente nel loro lavoro di divulgazione filosofica: come si fa a fiorire? L'estratto in esclusiva su Vanityfair.it

UNA GESTIONE ARMONICA. LA BREVITÀ DELLA VITA E LA TEMPERANZA

C’è un piccolo libro, scritto molti secoli fa, che spiega quanto sia illusorio correre in vista di un traguardo futuro, con la percezione costante che la vita sia breve e che il riposo possa arrivare solo in vecchiaia. Se provi un timore reverenziale verso i classici latini non ti preoccupare: il De brevitate vitae di Lucio Anneo Seneca è scritto con un linguaggio semplice, a tratti colloquiale, e racconta una condizione che accomuna quasi tutti gli umani del nostro tempo. Il filosofo stoico lo scrisse nel 49 d.C., tra l’esilio in Corsica e il ritorno a Roma, riversandovi tutto il disgusto per il modo di vivere dei suoi contemporanei. Il punto di partenza, in questa lunga lettera indirizzata a Pompeo Paolino, è che la maggior parte degli esseri umani si lamenta del fatto che l’esistenza sia breve, che non ci sia tempo per riposarsi e per fare tutto quello che si vorrebbe. Suona familiare? L’obiezione di Seneca è la seguente: non è vero che abbiamo poco tempo; il problema, piuttosto, è che ne perdiamo tantissimo.
Perché la vita non va vista in lunghezza, ma in profondità, e invece quello che facciamo spesso è disperdere tempo ed energie in cose di nessun conto, dando importanza alla reputazione, alle chiacchiere, alle occupazioni effimere, al potere e alla carriera. Leggere il De brevitate vitae può provocare un grandissimo senso di straniamento, perché parlando di antichi senatori e grandi autori romani sembra che Seneca stia in realtà descrivendo il nostro mondo, la nostra attualità, quello che vediamo negli altri e sperimentiamo in noi ogni giorno.

Oggi abbiamo un’idea idealizzata della vita degli antichi Romani: ce li immaginiamo a passeggio per le strade di Roma con le ciabatte di cuoio sui sampietrini, tutto il giorno a chiacchierare di politica, immersi in uno scenario poetico, lento. E invece il filosofo ci parla delle persone più privilegiate del suo tempo, gli uomini liberi come lui, affermando che erano in realtà schiave del proprio ruolo e infelici. Quello che ci trasmette è l’immagine di individui perennemente indaffarati, pieni di cose da portare a termine, di doveri, di impegni, che continuavano a procrastinare il tempo della quiete e dell’ozio e che sapevano solo dire: Ho troppe cose da fare, non posso fermarmi, quando andrò in pensione forse sì, ma adesso…È cambiato poco da allora: anche oggi si continua a procrastinare il tempo del piacere, del riposo e della cura di sé (Quando sarò in pensione mi potrò riposare, Quando i nostri figli saranno grandi potremo viaggiare, Quando non lavorerò più potrò dedicarmi solo a leggere e a scrivere), come se la vita fosse una linea dritta su cui poter avere controllo.

Ma il controllo sul futuro è un’illusione, perché non sappiamo cosa potrebbe accadere, di conseguenza rimandare i piaceri, il riposo, la cultura di noi stessi è solo una fantasticheria che impoverisce il nostro presente, che diventa quindi un tempo di fatica e sudore. Ci illudiamo di poter accumulare una serie di crediti nei confronti della vita che poi finalmente quando andremo in pensione riscatteremo, ma questo significa non vivere. Quei momenti sono perduti. Il tempo va impiegato bene ora, non può essere accumulato, e impiegarlo bene non significa ottimizzarlo senza riposarsi mai, ma disporne per prendersi cura di sé, per avvicinarsi a se stessi. «Quanto è tardivo cominciare a vivere quando bisogna finire!» scrive Seneca, perché le sagge decisioni, se sono quello che davvero desideriamo, vanno prese da su-bito, non rinviate alla fine della vita, a cui non sappiamo neppure se arriveremo.Seneca argomenta che «se la impiegassimo bene, nella sua interezza, la vita che ci è stata data è sufficientemente lunga e generosa da poter realizzare risultati grandissimi. Ma quando la lasciamo scorrere via, nel lusso e nel disimpegno; quando non la spendiamo per nessuno scopo che sia buono, alla fine siamo necessariamente costretti ad accorgerci che è passata, ormai tutta alle nostre spalle, e che non abbiamo compreso che se ne stava andando. È così: non riceviamo una vita corta, ma siamo noi a renderla breve. Non siamo poveri di vita, ma ricchi». Per chi la gestisce bene, quindi, l’esistenza è ampia, profonda, abbondante. Ma come si fa a gestirla bene? Come si fa a essere buoni custodi del tempo che abbiamo a disposizione?

IL SENSO DELLA VITA
Bisogna avere uno scopo, cioè qualcosa che ci dia il senso di ciò che stiamo facendo, che ci faccia percepire il labirinto che stiamo disegnando. Perché pensare che la vita sia breve significa percepirla come una linea retta, ma non è così: la nostra vita non è un binario dritto, ma un percorso labirintico che costruiamo passo dopo passo; dunque non conta raggiungere una destinazione, ma percepire il senso di quel percorso. Ecco perché una vita fertile e felice non è necessariamente una vita lunghissima, e non è detto che una vita lunghissima sia stata felice. Una vita felice è una vita che ha avuto senso per chi l’ha vissuta, quindi non per forza piena di riconoscimenti pubblici, di guadagni o di grandi esperienze. La pienezza non risponde a criteri oggettivi, ma all’armonia con l’identità profonda della persona. Una vita felice, per stare con Seneca, è una vita vissuta in profondità, non in superficie, e questo significa – in particolare oggi – costruire il senso della propria esistenza al di là dei condizionamenti esterni. Oggi il nostro tempo è programmato secondo le logiche collettive, misurato, schedulato, occupato dalla vita online, da stimoli superficiali, da chiacchiere inutili. Perché lo facciamo? Perché disperdiamo tempo ed energie in occupazioni sterili? Il grande tesoro oggi, quello che tutte le aziende del mondo si contendono – dalle multinazionali alle piccole attività – è l’attenzione di altri esseri umani. È per que-sta ragione che si usano e si sviluppano continuamente strumenti di neuromarketing e tecniche che possano at-trarre la tua attenzione. Avviene nella vita online, con le serie tv, anche con i libri. La tua attenzione è un capitale preziosissimo, e per questo finisce frammentata in mille occupazioni diverse durante la giornata. Queste occupazioni ti danno immediata soddisfazione – scrollare la timeline dei social network fa sentire di star facendo qualcosa, anche se in realtà si è passivi – ma a lungo andare fanno percepire un senso di frustrazione e di inutilità, perché non possono darti quello che cerchi. Non posso-no rispondere alla tua domanda di senso. Quello che Seneca attraverso i secoli vuole dirti, in altre parole, è: se vuoi condurre una vita che abbia senso, perdendo l’ansia della sua brevità, domandati a cosa dedichi attenzione. «L’attenzione è la forma più rara e più pura della generosità» ha scritto Simone Weil. A cosa dedichi la tua attenzione durante la giornata? Quanto spazio hanno il vuoto e la coltivazione di te? Quanto tempo è destinato alla saggezza? Scrivi sul tuo Diario la risposta a queste tre domande, una risposta sincera, senza censure e senza colpevolizzazioni. Prenditi tempo per rispondere e non avere paura, ti invitiamo soltanto alla sincerità verso di te. Anche se, in effetti, se Seneca potesse parlarti probabilmente ti direbbe: «Non è vergognoso riservare per te solo quanto rimane dell’esistenza e destinare alla saggezza solo quel tempo che non si può impiegare in alcun affare?».

COME ABITI IL TEMPO DELLA TUA VITA?
Il modo in cui percepiamo il tempo non ha niente a che fare con la scienza, come sottolinea spesso il fisico Carlo Rovelli. È una percezione umana che deriva dalla cultura, dall’abitudine, dallo spirito del tempo. Gli antichi Greci, per esempio, lo percepivano in tutt’altro modo e avevano più termini per descriverlo: il tempo lineare; il tempo puntiforme, basato cioè su accadimenti usati come punti di riferimento; il tempo escatologico, cioè rivolto verso una fine che retrospettivamente illumini e dia senso a tutto il percorso; e il tempo cairologico, del singolo istante da vedere e afferrare. Il tempo influenza il modo di stare al mondo, di organizzare le priorità, la vita quotidiana, di raccontare la propria storia e, oggi più che mai, il tempo ci sembra sempre poco. Ancora una volta, ciò che ti fa sentire a disagio nella tua vita personale è frutto di una condizione sociale, e la difficoltà che hai nel trovare il senso della vita dipende dal fatto che questa è la società della performance, in cui il bisogno di ulteriorità rischia spesso di diventare un prodotto commerciale, più che un autentico cibo spirituale. L’ansia da prestazione oggi è un disturbo collettivo, e il bisogno di correre per contrastare la brevità della vita è un condizionamento sociale che nel tempo, anziché allentarsi, sta diventando sempre più asfissiante. Il modo in cui vediamo la vita è influenzato dal modo in cui gli altri lo fanno, dallo sguardo che ci viene insegnato direttamente e indirettamente. Ancora non abbiamo imparato a parlare e già ci viene chiesto cosa faremo da grandi, e queste domande diventano sempre più pressanti con il passare del tempo. Il modo in cui progettiamo la nostra vita e le nostre giornate dipende poco da noi e molto dall’influenza della nostra società, ma se questo può darci un senso di liberazione, non ci giustifica comunque a disperdere le energie in modo futile. Siamo sempre responsabili del modo in cui ci prendiamo cura di noi, quindi anche della nostra attenzione.

Il vero lusso oggi è avere tempo. La ragione per cui, ancora più di quanto avveniva al tempo di Seneca, la vita diventa una corsa costante è che fin da piccoli veniamo spinti a ottimizzare, riempire, capitalizzare, e il tempo vuoto ha assunto una valenza negativa. Il tempo guadagnato, però, è il tempo liberato, non quello riempito. Cos’è quella sensazione di non avere mai la possibilità di riprendere il fiato, di avere sempre un sacco di pensieri, liste di cose da fare, doveri, richieste? Sia chiaro, quando scriviamo questo stiamo pensando a noi prima di tutto, alla vita che ci siamo costruiti insieme in questi anni, a quello che abbiamo creato, alle cose belle che sono arrivate, ma che adesso – proprio mentre scriviamo – sono un ostacolo che si pone tra noi e il tempo da perdere. Del resto i libri non si scrivono per spiegare qualcosa ma per capirla, per essere sinceri con se stessi, e questo sta avvenendo per noi anche con il libro che hai tra le mani. Dunque non vogliamo insegnarti qualcosa, vogliamo spingerti ad autoeducarti, a domandarti come stai davvero, a comprendere quanto sia facile per te creare del tempo vuoto. I consigli che vengono dati spesso da chi si occupa di crescita personale hanno come scopo quello di aumentare le tue prestazioni, e per questo spesso consistono nel dirti di svegliarti alle cinque di mattina, dormire pochissimo, lavorare trecentosessantacinque giorni all’anno fare mille cose e osservare come aumentano i tuoi guadagni. Probabilmente non ci hai mai creduto davvero, però qualcosa dentro di te potrebbe aver pensato: Vedi come dovresti fare? Vedi quante cose ti stai perdendo per colpa della tua pigrizia? L’idea che essere superproduttivi sia sano e che tut-to il resto sia sbagliato è una gigantesca illusione collettiva, che però stressa e fa sentire in colpa milioni di persone, convincendole di avere un problema perché non sono produttive e non desiderano esserlo. Abbiamo una notizia: chi ha le caratteristiche giuste per lo spirito di questo tempo – cioè chi è una persona comunica-tiva, con velocità di pensiero, senso pratico e produttività – non sta necessariamente meglio di chi non le ha. Anzi: conosciamo tantissimi influencer, divulgatori, vip e persone di successo che hanno tutte quelle caratteristiche giuste e che proprio per questo sono in una gabbia gigantesca: esattamente come Augusto e Cicerone nel libro di Seneca. È anche la ragione per cui non do-vremmo mai giudicare la vita di qualcuno sulla base di ciò che vediamo nel suo account social, e neanche sulla base di ciò che racconta di sé. Il senso di una vita non è monetizzabile e non dipende dalla quantità di follower, ma dal percorso di avvicinamento a sé che quella persona sta compiendo.

VITA ATTIVA E VITA CONTEMPLATIVA
Quando volevano conoscere il futuro, gli àuguri romani sapevano come farlo apparire nel presente: con un bastone (il lituo) tracciavano in aria uno spazio dentro il quale avrebbero osservato il volo degli uccelli. Quel che vedevano attraverso quella porzione di cielo (chiamata templum) era l’irruzione del futuro nel presente, dell’infinito nel finito, del senso nel non senso. Gli eventi che accadevano lì dentro diventavano la descrizione della volontà superiore, l’oracolo che indicava cosa sarebbe accaduto. L’atto di osservare quello spettacolo era la contemplazione, da cum-templare, ossia l’atto di osservare attraverso il templum. Portando lo spazio infinito in uno finito gli antichi sacerdoti ci ricordano ancora oggi che per ricevere infor-mazioni dai livelli superiori – e cioè per sviluppare immaginazione, ispirazione e creatività – bisogna imparare a delimitare uno spazio di manifestazione dentro e fuori di noi, attraverso cui leggere il libro del mondo. È fondamentale, quindi, imparare a contemplare, ossia a circoscrivere un luogo dove l’incomprensibile diventi comprensibile. Nella cultura greca e romana, per prendersi davvero cura di sé era essenziale trovare un equilibrio tra vita attiva e vita contemplativa, e i due aspetti dovevano rimanere distinti e riconoscibili. Il mondo in cui viviamo, al contrario, dà totale importanza alla vita attiva, e anche la vita contemplativa rischia di diventare un task da portare a termine in uno slot della tua giornata, e non qualcosa di completamente diverso. Viviamo in uno stato di attivismo forzato, come lo definisce il filosofo Byung-Chul Han, in cui anche la vita contemplativa viene inclusa e percepita esattamente come qualcosa da fare, un dovere da portare a termine. La filosofia, invece, nasce dal tempo libero (scholé), che i Greci vedevano come un tempo privo di costrizioni, uno stato di libertà in cui poter coltivare la saggezza e la temperanza (sophrosyne). Il fatto che oggi questo tempo libero sia praticamente assente dalle nostre vite non è una causa, ma un effetto del modo in cui viene pensata la vita umana. L’essenziale è produrre, lavorare, accumulare sempre più ricchezza; la contemplazione è sinto-mo di pigrizia, è qualcosa di superfluo. La concezione di tempo libero degli antichi filosofi si basa su un modello di esistenza oggi incomprensibile, distante, che giudicheremmo pigro e inefficiente. In realtà la vita contemplativa non è una vita inattiva, ma rappresenta un tempo che dedichiamo al raccoglimen-to, all’ascolto, alla meditazione, alle domande sul sen-so della nostra vita, ed è quel tempo in cui troviamo il senso, riconosciamo la vocazione, comprendiamo quale sia la direzione da seguire. È il tempo che dedichi alla scrittura su carta del Diario, per esempio, e come hai visto la scrittura rappresenta un modo semplice per en-trare in quello stato. Si tratta, infatti, di un altro stato di coscienza. Coltivare la vita contemplativa, creare questo spazio apparentemente vuoto significa prendersi cura di sé, non lasciarsi derubare tutto il tempo e le energie dalla vita attiva. Non si tratta di dare priorità all’una o all’altra, ma di trovare un bilanciamento, una giusta misura. La vita attiva dovrebbe essere al servizio della vita contemplativa, non il contrario, così come i progetti che portiamo avanti e i talenti che coltiviamo dovrebbero essere al servizio della vocazione.

LA NOIA E LA CREATIVITA’
Oltre che alla performance, la società di oggi attribuisce grande valore alla creatività. Eppure non ci lascia mai tempo per coltivare lo spazio vuoto che è essenziale all’emersione dell’autentica creatività: la noia. «La noia è l’uccello incantato che cova l’uovo dell’esperienza» diceva Walter Benjamin: ma questo covare ha bisogno di tempo, di attesa, di spazio. Oggi questo tempo non c’è, e la noia ci fa addirittura paura. Lo aveva già anticipato Bertrand Russell nel 1930, quando scriveva che una generazione che non sa sopportare la noia diventerà necessariamente una generazione di uomini meschini, nei quali sfiorisce ogni impulso vitale. Non appena rischiamo di annoiarci cerchiamo una distrazione, un modo per poter rimanere attivi, ma questo ci impedisce di vivere il tempo di quiete, che lo psicologo Adam Phillips definisce di sospesa anticipazione, cioè quello stato in cui non stiamo facendo niente, non sta accadendo niente, ma siamo osservatori di ciò che accade. È il tempo in cui possiamo fare esperienza del-la meraviglia, o semplicemente annoiarci, ma è un tempo che non dedichiamo alla contemplazione perché abbiamo paura che diventi tempo perso. Ecco il paradosso: viviamo con l’idea che il tempo sia l’unica cosa che abbiamo, e siamo convinti che per usarlo al meglio vada ottimizzato, e così lo disperdiamo e lo sprechiamo. Ma il tempo vuoto non è mai tempo perso, il tempo di atte-sa non è tempo buttato. Al contrario: il vuoto è l’unico strumento che abbiamo per lasciar emergere ciò che nel-la vita attiva non trova spazio, le emozioni che non sentiamo, gli stati emotivi di cui non ci accorgiamo. La noia ci permette di capire come stiamo davvero, e forse è per questo che ne abbiamo paura. L’economia del tempo non dovrebbe avere a che fare con la capitalizzazione, ma con il governo di sé e con una gestione armonica, e per gestire armonicamente il proprio tempo e la propria vita l’ozio deve avere un’importanza centrale, specie se si è persone creative. L’ozio è essenziale alla creatività, ed è ciò che dovremmo fare quando ci sentiamo svuotati. Non dovremmo forzare le cose, ma seguire ciò che il corpo, la mente, l’anima ci stanno dicendo. Si tratta di creare un passaggio fluido tra vita attiva e contemplativa, e imparare a farlo è una virtù.

LA TEMPERANZA
Chi non riesce a fermarsi, a prendere le distanze dalle cose da fare si trova in una condizione simile a chi non riesce a portare a termine niente: sono due poli opposti, ma in entrambi i casi si tratta della difficoltà di trovare la giusta misura, una virtù che l’antica Grecia teneva in altissima considerazione e che noi abbiamo perduto. La chiamavano sophrosyne, cioè temperanza. La giu-sta misura non è una media aritmetica tra tempo in cui agiamo e tempo in cui contempliamo, ma si tratta di un bilanciamento, di un equilibrio sempre nuovo, che non è mai lo stesso, che cambia durante il nostro percorso e che dovremmo imparare a percepire. Come scrive Giulio Giorello in Le virtù cardinali, il modo in cui l’arte figurativa nel corso dei secoli ha raffigurato la temperanza è stato spesso legato a scenari bucolici, cieli azzurri, pace ed equilibrio, donne serene che versavano l’acqua da un otre a un altro. Come possiamo riconoscerci in immagini del genere, se siamo sempre combattuti tra mille cose da tenere insieme, sempre di fretta, sempre reperibili, spesso in preda a emozioni negative? La temperanza, in realtà, non è la sublimazione di pulsioni ed emozioni, ma è qualcosa di vivo, concre-to, un equilibrio sempre nuovo, perché ha a che fare con quell’oceano complicatissimo di cui sono fatti gli esseri umani. Temperare significa letteralmente mescolare, e deriva sempre da tempus, cioè tempo. Essere temperanti non significa quindi eliminare le proprie caratteristiche o nascondere i propri desideri, al contrario significa mescolare tutti gli elementi che ci compongono. Le nostre caratteristiche, la vita attiva e la vita contemplativa, le nostre emozioni, i nostri desideri. Coltivare la temperanza nel processo di cura di sé non ha niente a che fare con il controllo, ma con la mescita. Significa realizzare che abbiamo innumerevoli caratteristiche e personalità, e che questo non è sbagliato. Non c’è niente che vada eliminato, ma solo governato.

TROVARE LA PROPRIA RICETTA
La ragione per cui oggi diamo centralità alla conoscenza di sé, e abbiamo invece eliminato dalla nostra memoria e dai nostri programmi la cura di sé e la temperanza, è dovuta al fatto che negli ultimi millenni abbiamo sviluppato quello che Jung chiama monoteismo della coscienza. Ci siamo convinti di avere un solo Io, di doverci riconoscere in un’immagine limpida di noi che non deve cambiare mai, e questo ci provoca un senso di disarmonia e frustrazione, oltre alla sensazione di non star esprimen-do tutto quello che abbiamo dentro. Nelle culture antiche, gli strumenti di caratterizzazione dell’essere umano non erano visti come tabelle in cui essere incasellati, ma come spettri di tipi diversi di ener-gie che coesistevano nella stessa persona. Ciascuna aveva delle caratteristiche dominanti, ma lo scopo era essere in grado di osservare tutte le energie dentro di sé e armonizzarle. È per questa ragione che James Hillman, che ha portato avanti il lavoro di Jung sulla psicologia del pro-fondo, ha parlato della necessità di un politeismo psicologico e di un ritorno alla grecità: le divinità greche, cioè le figure e le storie che i Greci avevano creato per raccontare le caratteristiche umane, fanno tutte parte di te, sono abiti che cambi durante il giorno, sono tutte energie che hai dentro. Quello che facciamo oggi, invece, è pensare di essere solo marziali, solo venusiani, solo gioviali o solo mercuriali. Ma se è vero che ciascuno di noi è un cocktail unico di tutti questi ingredienti, dentro ogni persona coesistono tutti gli dèi – e spesso litigano e si fanno la guerra, come sai bene – e comprenderlo aiuta a fare in modo che nessuno di questi prevalga, che nessuna caratteristica monopolizzi la nostra vita. Per coltivare la virtù della temperanza, quindi, è necessario mettere in campo tutti i propri ingredienti, senza nascondere niente. Essere temperanti significa creare fluidità e riequilibrare, armonizzando gli eccessi.

 La capacità di governare e discernere tra le proprie passioni può avvenire solo dopo la comprensione di qua-li queste siano; la moderazione degli appetiti a cui invitano gli stoici – Epitteto, Seneca, Marco Aurelio – non può avvenire se prima non impari a conoscerli. In altre parole, puoi governare un fuoco se è acceso, e governarlo significa fare in modo che non si spenga e che non bruci tutto, ma spegnere il fuoco e dire di averlo governato significa condurre una vita fredda, arida, spenta. Governare se stessi non è reprimersi, ma condurre. È il ruolo dell’auriga nel mito della biga alata di Platone, come vedremo, ed è il compito di chi vuole avere una vita fertile che abbia un senso. La filosofia ha sempre parlato di dominio delle passioni, ma questa idea è stata spesso percepita come censoria o repressiva, sebbene in realtà la temperanza sia un invito a trovare l’equilibrio tra tutte le parti di sé, tra azione e contemplazione, al fine di riconoscere il giusto momento per ogni cosa e dare spazio a tutte le parti di sé. Nella nostra vita possiamo avere voglia di stare da soli o con gli altri, possiamo imparare a godere senza dipendenze, a la-vorare senza ossessione, alternare periodi attivi a periodi di contemplazione. La cultura cristiana ha ripreso l’idea filosofica della temperanza per disegnare il percorso che dovrebbe accompagnare verso una vita buona, ma la differenza tra l’approccio filosofico e quello religioso è che la filosofia ti spinge a domandarti cosa è il bene, mentre la religione dà in merito precetti precisi. Il filosofo pensa: cos’è bene per me in questo momento? Non c’è una norma a cui at-tenersi, ma è una domanda da farsi. Non è detto che unacerta cosa sia buona per chiunque, o che sia buona nella stessa misura, e non è detto che sia buona per te in ogni momento della tua vita. Cosa sia vizio e cosa sia virtù sta a te comprenderlo, e anche cosa sia un valore o meno da seguire.Chi è quindi la persona temperante? Chi vive passioni forti e prova a non farsene dominare. I filosofi antichi, per esempio, non erano privi di passioni: dai loro libri emergono fastidi, rabbie, umori. Non si tratta di pensare che la temperanza non sia alla nostra portata perché siamo passionali, anzi. Si tratta di portare queste passioni in profondità, non disperdere le energie che abbiamo ma canalizzarle, usare il nostro carburante per seguire una direzione. Riuscire a governarsi può anche significare fare astinenza, evitare la dispersione di energie, eliminare qualcosa per far emergere altro, fare in modo che l’energia continui o riprenda a fluire. Si tratta della capacità di riconoscere quando sta cambiando il vento, come fa lo spazzacamino Bert in Mary Poppins. Non è quindi una formula matematica, ma una virtù, l’arte di ritrovare un equilibrio ogni volta, momento per momento. Si tratta di avere una meta chiara, che dia un senso al percorso, e godersi quel percorso senza al contempo perdere di vista la meta. G.I. Gurdjieff, eccentrico filosofo armeno e maestro di danze, sosteneva che gli esseri umani fossero tendenzialmente o lunatici (iperattivi, ostinati, con il bisogno di avere controllo su tutto) o vagabondi (senza una direzione precisa, disordinati), e diceva che ad avere concrete possibilità di evoluzione fosse invece l’obyvatel, letteralmente l’abitante, in italiano tradotto in genere con il buon padre di famiglia (come canta Franco Battiato in Caffè de la Paix, la canzone dedicata al mistico armeno). Nella lingua russa il termine obyvatel viene usato spesso in senso di disprezzo o di derisione, perché non è una persona eccezionale, ma semplicemente la brava persona, chi ha buonsenso. Una persona comune, che ha prospettive limitate ma chiare su ciò che sta facendo. Che può perdere continuamente la rotta, ma che poi la ritrova. Che non corre e non si ferma, ma trova il suo passo, e in questo modo – in armonia con ciò che prova – va avanti nel proprio cammino, tenendo insieme stabilità e movimento.
In libreria per HarperCollins il 28 gennaio – 18.00 euro, 208 pagine

© 2021 Andrea Colamedici e Maura Gancitano

© 2021 HarperCollins Italia S.p.A., Milano

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