Lucia Gravante del Collegio: «Non vergogniamoci di avere paura»
Quando Lucia Gravante sente che l’ombra del passato si allunga su di lei facendola sentire inadeguata e insicura come quando era bambina, esce in giardino e guarda il fiore di vischio che ha piantato dopo la morte di suo padre: piccolo e indifeso come era lei, schiacciato inconsapevolmente da suo marito più volte al punto da farle perdere la speranza che sarebbe cresciuto, il vischio è diventato, con il passare degli anni e con sua grande sorpresa, una pianta splendida e rigogliosa alta più di due metri. «Quando ho i miei momenti la guardo e mi dico: se questa pianta ha fatto tutto questo, cosa potrà mai andare storto a me?» si chiede Lucia al telefono dalla sua casa di Chiaverano, contemplando dalla finestra il giardino che l’ha aiutata a elaborare il lutto – «Dopo il funerale di mio padre mi sono messa a strappare le erbacce e mi sono resa conto che più le strappavo e più stavo bene» – e dal quale osserva il sole, astrale e metaforico, in grado di farle capire che le ombre, per quanto profonde, non sono mai destinate a durare.
Nonostante ne Il Collegio, il docureality di Raidue che l’ha resa famosa, Lucia si presenti come una sorvegliante intransigente e inscalfibile, il suo vissuto conserva segni e ferite che affondano le radici quando era piccolissima. Figlia di Antonio, daziere campano, e di Giovanna, imprenditrice pugliese, Gravante si trasferisce a Nord con la sua famiglia e frequenta le scuole in un piccolo paesino dove viene subito bollata come quella «diversa»: con i capelli scuri, la pelle olivastra e l’accento non allineato a quello degli altri, i compagni iniziano a prenderla in giro facendola sentire incapace, inadeguata, brutta. Le dicono che ha i baffi, che le sue occhiaie sono troppo profonde e che non arriverà lontano: Lucia si sente sola, non ha nessuna amica con cui confidarsi e, un po’ come la Matilda di Roald Dahl, si rifugia nei libri traendo ispirazione da quelle eroine che, in barba alle difficoltà, sono sempre andate avanti a testa alta. «Ricordo un libricino della collana Reader’s Digest di mio padre chiamato Il breviario del successo: dentro c’erano le vite di tantissime persone che avevano avuto successo nonostante fossero cadute fino a farsi male. Tradurre il fallimento in esperienza è forse l’insegnamento più prezioso che abbia tratto».
Oggi, a più di quarant’anni da quei piccoli traumi che hanno continuato a tormentarla anche in età adulta – tipo i direttori dei casting che a Roma le dicevano che era troppo vecchia per intraprendere la carriera di attrice e che avrebbe fatto bene a tornare a casa e occuparsi dei suoi bambini – Lucia un libro lo ha scritto di suo pugno: si intitola Il sole nasce per tutti, è pubblicato da Piemme ed è una finestra bellissima e commovente sul suo mondo, sul dolore che ha cercato di trattenere per anni – scrive che da bambina a scuola raccoglieva le lacrime nelle boccette delle vitamine per non farsi scoprire – e sull’esperienza che sente di voler condividere soprattutto con i ragazzi più giovani (la maggior parte dei suoi follower su Instagram sono, infatti, adolescenti) affinché accettino le loro insicurezze perché anche le persone più spavalde nascondono fragilità che non vorrebbero mai mostrare agli altri. «La fragilità è un filo conduttore che riguarda tutti, solo che un po’ ce ne dimentichiamo e un po’ ce ne vergogniamo» spiega Lucia.
Perché ce ne vergogniamo?
«Perché siamo tutti un po’ travestiti, prendiamo i nostri talloni d’Achille e, anziché aggiustarli per poi correre, preferiamo lasciarli lì e zoppicare. Chi è che oggi racconta di essere stata presa in giro perché le dicevano che aveva i baffi da bambina? Se lo dici, diventi vulnerabile e la cosa stride con tutto quello che ci circonda, con l’idea che dobbiamo essere tutti molto performanti e spettacolari. Sarebbe tutto così facile se ammettessimo con serenità “sono caduta e ho trovato il modo di rialzarmi”».
La decisione di mettersi a nudo in questo modo quando è arrivata?
«Quando mi è arrivata la proposta di Mondadori, ho riflettuto un attimo nel mio giardino e ho pensato: perché non raccontare il mio percorso come un’opportunità? Ci ho creduto: negli ultimi 18 anni non ho passato un giorno senza credere nel mio sogno di diventare attrice e in quello che potevo fare, cercando di proteggere la mia luce da tutto quello che mi circondava e dalle persone che mi dicevano di lasciar perdere perché ero vecchia e brutta. Da sempre prendo degli appunti su un quadernino rosa che, al momento di buttare giù l’idea, ho tirato fuori perché avevo sapevo bene quello che avrei voluto raccontare nel libro: il resto è venuto da sé».
Cosa ha provato nel ripercorrere tutti i traumi del passato?
«All’inizio facevo dei sogni strani, gli stessi dei tempi bui. Quando il libro ha iniziato a prendere corpo, però, ho cominciato a guardare bonariamente tutto quello che ho passato: mi sembrava assurdo di aver sofferto così tanto. Questo libro è servito perché mi ha permesso di fare l’ultimo gradino, di darmi quello che mi mancava, di colmare quei centimetri che, in realtà, sembravano tantissimi».
Una grande scrittrice, Nadia Terranova, dice che scrivere del proprio vissuto non guarisce, ma aiuta a prendere consapevolezza di quello che si è affrontato. È d’accordo?
«Totalmente. Il libro, alla fine, parla proprio di questo: di accettare tutti i giorni di avere paura e di continuare ad ammettere di avere dei dubbi e delle insicurezze. Chi lo ha detto che se ci sentiamo inadeguati dobbiamo essere per forza sbagliati? Forse è una cosa che qualcuno ci ha raccontato e a cui noi abbiamo creduto senza riflettere».
A un certo punto, lei cita una massima di Eleonor Roosvelt che, forse, racchiude bene il senso ultimo del libro: «Nessuno può farti sentire inferiore senza il tuo consenso».
«È una frase che mi sono riportata di agenda in agenda, di anno in anno: se uno ti dice che “sei brutta” può anche andare bene, ma cosa scatta dentro di te per permettere che quella cosa ti faccia così male? La chiave è tutta lì. Se io mi sento bella e mi piaccio, qualsiasi cosa mi arrivi dall’esterno non può più farmi del male: l’importante, però, è arrivare a fare questo passaggio dentro di te».
Nel libro ha anche parlato della malattia di suo padre, scomparso nel 2015, e di come si sia sentita improvvisamente adulta.
«La malattia di mio padre ha fatto saltare gli equilibri della mia vita: quando se n’è andato, ho capito di essere un’altra persona, più grande. Ero già sposata e avevo i miei figli, ma non era in quello che mi sentivo cresciuta. La vera trasformazione, il passaggio dalla crisalide alla farfalla, è successo lì: quando il genitore se ne va, è come se ti lasciasse la strada spianata».
A proposito di figli, i suoi hanno letto il suo libro? Cosa le hanno detto?
«Le dico solo che mia figlia ha scoperto che glielo avevo dedicato solo perché l’ha avvertita una mia amica. Mi sento un po’ snobbata da loro, ma forse un po’ mi piace».
Pensa che le persone che le hanno fatto del male possano essersi riconosciute leggendo il libro?
«Forse sì. Le dico, però, un’altra cosa: se avessi avuto un’altra vita, probabilmente oggi non saremmo qui a parlare. Per contrappasso, mi sento quasi di doverle ringraziare queste persone perché, senza di loro, forse non avrei avuto la stessa determinazione di andare avanti che ho avuto. Penso all’insegnante di filosofia che mi disse che non avrei fatto nulla, o a quello che ai provini mi disse che ero vecchia per fare questo lavoro: senza di loro mi sarei accontentata e non avrei cercato di più, chi lo sa. Credo che tutto doveva andare così e, guardando indietro, per assurdo credo che sia andata pure bene».
Un’altra cosa inquietante che emerge è la complicità degli adulti, in questo caso dei professori, negli insulti dei coetanei. Che risposta si è data di questo?
«Alcuni adulti fanno i furbi, specie in ambito scolastico. Mi fa sorridere quando gli insegnanti dicono di “non cogliere nulla”: ma come è possibile, che quando sei in classe devi avere i sensi sparati a mille? Se non avessi fatto l’insegnante io stessa, magari ci avrei anche creduto, ma passandoci no. È impossibile che un docente non si renda conto di quello che succede ai suoi ragazzi».
A fare peggio è l’amplificazione del bullismo e degli insulti attraverso i social.
«Oggi i ragazzi sono proiettati all’esterno alla velocità della luce ed è normale che si sentano schiacciati. Quando ho letto degli adolescenti che prendono le benzodiazepine per sostenere l’ansia e per sopportare le vicende della vita mi sono quasi spaventata: il carico del passaggio di generazione sembra insostenibile. Ai ragazzi dovremmo dire, invece, che si può avere paura, che è lecito, fa parte della vita e della morte. Se ce lo ricordassimo, vivremmo meglio, con più onestà».
A proposito della morte, lei spiega di averla temuta fin da bambina: non certo una cosa comune.
«Se ci pensa, la morte è l’antesignana di tutte le paure che, poi, si trasformano in qualcos’altro. C’è qualcosa che non viene metabolizzato e che un bambino non riesce a codificare con gli strumenti di cui dispone. Il problema è sempre questo».
Come dice il suo titolo, però, il sole nasce sempre per tutti.
«Quando l’ho capito mi sono sentita leggera, finalmente libera di dire “chi se ne frega” e di ripeterlo con gioia. Il buio alla fine lascia sempre il posto alla luce: è un ciclo dal quale non si sfugge. Se riuscissimo a guardarci meglio intorno, lo capiremmo immediatamente e questo ci cambierebbe probabilmente la vita. Nonostante tutte le cose ho vissuto, io, come cantava Vasco Rossi, sono ancora qua. Ho trovato finalmente la persona che voglio essere».