Pierfrancesco Favino al Vanity Fair Stories: «La mia totale (e bella) insicurezza»
Prima il David di Donatello per Il Traditore, poi il Nastro d’Argento per Hammamet e infine la Coppa Volpi a Venezia per Padrenostro. «Non c’è che dire, è stato un anno carico di soddisfazioni», sorride Pierfrancesco Favino, ospite del nostro Vanity Fair Stories, quest’anno in versione digitale. «Purtroppo mi sono goduto la gioia in solitudine, avrei voluto condividerla di più». Colpa del coronavirus, ovviamente, che ha colpito con violenza anche il mondo dello spettacolo.
«Non posso essere felice soltanto per i premi, quando poi vedo i cinema aprire e chiudere», afferma l’attore romano. «I film li fai affinché la gente li veda, manca l’adrenalina di quando arriva in sala, l’incognita della riuscita. È lì che il film si manifesta, perché è destinato a qualcuno che ne fruisce in concreto. In questo periodo di isolamento ti domandi per chi lo stai facendo, di sicuro non fai film per te stesso. C’è anche una sorta di sofferenza creativa».
Favino, pur riconoscendo la priorità della questione sanitaria, vorrebbe che il governo avesse un occhio di riguardo per l’universo dell’arte: «Condivido le ragioni di sicurezza, ma non capisco alcune scelte», dichiara. «Adesso si discute molto sulla riapertura dei negozi in vista del Natale, va bene, ma perché non sento riferimenti alla riapertura di cinema e teatri? Mi domando quale sia la collocazione del mondo culturale all’interno del pensiero politico del Paese».
In questo tempo sospeso, secondo l’interprete classe ’69, dovremmo porre le basi per il futuro: «Vorrei che le nuove generazioni sapessero vivere nella bellezza, distinguendola, rendendola parte attiva della loro vita, bisogna re-introdurre la sensibilità culturale a scuola». Poi si sofferma proprio sul concetto di bellezza: «È un’aspirazione, una speranza. Se togli a qualcuno la possibilità di assistere a qualcosa che porta bellezza, gli stai togliendo una speranza».
Soprattutto in un momento di «paura generale» come quello che stiamo attraversando: «Sarebbe davvero importante avere dei luoghi anche solo per condividere la paura», dice Favino. «Sono necessari alla salute pubblica: non degli organi visibili, d’accordo, ma dello spirito e dell’anima. Dobbiamo nutrire quelle zone lì». Come lui fa da quando era ragazzo, grazie ad un lavoro che conserva un lato ludico perché – come dichiara lui stesso – «è una continua caccia dell’ignoto».
«Ancora oggi sono sorpreso da quello che mi capita. D’altronde, seppur la nasconda in alcuni personaggi che interpreto, molte persone persone non conoscono la mia totale insicurezza. Dallo schermo sembro molto più sicuro delle cose rispetto a quello che sono veramente», conclude Favino. «E alla fine mi va bene così: una sola collocazione non la voglio, un significato soltanto non mi interessa».