Pupi Avati: «Morire mi farebbe sentire in colpa»
Del Male, quello che si insinua sottopelle e che è impossibile da sradicare una volta piantato, si parla troppo poco. «Il Male merita un’attenzione che in questo momento la società e la Chiesa sembrano ignorare» spiega Pupi Avati al telefono, in macchina sulla via di casa per le strade di Roma. «Io il presente lo avverto così, sento l’ingiustizia diffusa di chi approfitta di situazioni di potere in modo esplicito e senza nessun ritegno, ed è per questo che credo che sia doveroso occuparsi del Male». Avati, regista pluridecorato di più di cinquanta film, del Male ha incominciato a occuparsi all’inizio della sua carriera con capolavori come La casa dalle finestre che ridono e, più recentemente, con una saga letteraria iniziata con Il Signor Diavolo e proseguita con L’Archivio del Diavolo, il libro pubblicato da Solferino che continua a indagare le insidiosità del Maligno nella provincia italiana degli anni Cinquanta, tra corpi mummificati e prefetti consumati da un livore antico, che corrode tutto il buono che l’umanità riesce a donare.
L’Archivio del Diavolo è il secondo atto di una trilogia che ha intenzione di concludere.
«Se mi daranno la possibilità di farlo, mi piacerebbe chiudere con una luce, una speranza, un’ipotesi di soluzione. Qualcosa che non lasci nelle tenebre il racconto».
Alla fine è sempre il Bene a vincere?
«È sempre così. Ho un’età che mi permette di dire che giocare alle regole paga. Magari perdi le battaglie, ma la guerra la vinci».
Il Male ha tante forme. Oggi che cos’è per lei il Male?
«Coincide quasi sempre con il potere, ormai si annida lì. So che può sembrare una sintesi molto spiccia, sbrigativa e anche un po’ ingenua, ma credo davvero che le persone che hanno avuto accesso al potere siano tutte peggiorate: nessuna di quelle che ho conosciuto è migliorata nella sua volontà di rapportarsi con gli altri esseri umani. Il potere ha qualcosa di tossico e di esplicito, per ottenerlo occorre sempre rompere le regole e prendere qualche scorciatoia. Se in questo mondo ti comporti correttamente, difficilmente accederai alle stanze dove si decidono le sorti di tutto. Non c’è nessuno di loro che non celi qualche peccato importante».
Non crede che anche lei, nel suo ambito, potrebbe essere considerato un uomo di potere?
«Mi sarebbe piaciuto essere così sopravvalutato. Mi hanno sempre visto per quel poco che valgo, nei limiti di quello che sono e che rappresento, di quel poco che conto. Ho sempre cercato di inseguire l’immaginazione per preservare la mia identità, tenendomi alla larga dalle mode e dal pensiero generale per conservare un mio tono di voce, una mia calligrafia e un mio mondo espressivo. Attraverso i miei film e le cose che scrivo ho cercato di esprimere quello che so della vita e che non assomiglia mai alla moda corrente, a quello che si dovrebbe dire o fare».
Qual è la moda corrente di oggi, secondo lei?
«Affidarsi sempre a delle posizioni molto comode, terze e parassitarie. Si sono inventati una serie di professioni che prima non esistevano. Pensiamo alla pletora di opinionisti che imperversano da tutte le parti per dirci come le cose dovrebbero essere. C’è sempre l’esposizione di terzi, senza che nessuno paghi mai il dazio».
Tornando al Male, lei ha detto recentemente di averne fatto a qualcuno quando era giovane, ma è sempre rimasto molto vago.
«Ho fatto del male in modo atroce. È qualcosa che ho rimosso per tanti anni e che vigliaccamente ho saputo perdonarmi, anche se non avrei dovuto farlo. Quando diventi anziano, senti la necessità di fare pace con le persone e con tutto il resto: vorrei andarmene riappacificato con questo mondo, un po’ come quando da bambino giocavo nei cortili e, quando scendeva il buio, sentivo di voler fare la pace con chi avevo bisticciato quando c’era la luce. In questo momento della mia vita riemergono tante cose del mio passato con un nitore sorprendente, dovuto alla circolarità del tempo: non ho mai ucciso nessuno, ma da ragazzo la mia sconsideratezza è arrivata a dei livelli imperdonabili».
A cosa era dovuta questa sconsideratezza adolescenziale?
«Alla forma musicale e trasgressiva del jazz che ti dava la sensazione di poterti permettere qualunque cosa. L’immagine del jazzista è portatrice di un certo cinismo, di un’amoralità di fondo e di un comportamento poco apprezzabile nei confronti degli altri, soprattutto delle ragazze. Cose di cui non vado orgoglioso».
Forse c’entra anche la cornice, quella dell’Italia degli anni Cinquanta, che lei descrive anche nel libro. Che ricordo ne ha?
«Essenziale. Ne ho nostalgia solo perché c’ero io ragazzo ma, se dovessi comparare le condizioni di vita di allora a quelle di oggi, non ci sarebbe partita. Sono anni che associo agli amici del bar e alle jazz band, a un’epoca in cui tutto era possibile. A quel tempo ci sentivamo più legittimati a formulare, a immaginarci dei futuri, una cosa che la vita di provincia in un certo senso legittima. I giovani di oggi, rispetto a noi, sono meno sfrontati e più concreti, hanno meno ali. Noi ci illudevamo con più facilità, senza contare che abbiamo avuto la fortuna di vivere la distrazione degli adulti: i giovani non contavano niente, mentre oggi sono al centro delle attenzioni del mondo. Piacere ai giovani è diventato un must, ma io non posso fare un film pensando che piaccia a loro. Magari mi piacerebbe sedurli, ma non saprei come fare e, sinceramente, non voglio neanche pormi il problema».
Ha detto che la provincia, cornice di tantissimi suoi film, legittima la fuga. Oggi cosa rappresenta la provincia?
«Oggi non c’è più, ha abdicato a questo suo ruolo con una frettolosità estrema. Parlo, naturalmente, della provincia dell’Emilia Romagna e di Bologna, che ha sempre cercato di spacciarsi per metropoli pur continuando a conservare ancora oggi alcuni elementi inquietanti. Vivere in provincia significava essere oggetto delle classifiche, essere conosciuti da tutti, ed è per questo che sono dovuto scappare: tutte le persone che hanno scommesso sul sogno di una qualche ambizione se ne sono andate. L’unico che è tornato fu Lucio Dalla, ma solo perché era talmente rafforzato da poterselo permettere, tant’è che diceva che l’unica cosa che c’era a Bologna erano i tortellini».
Se lei ha abbandonato le sue ambizioni di jazzista è stato anche per Lucio Dalla.
«È stato soprattutto per Lucio Dalla. Per lui e per tutte le persone di grande talento con le quali mi sono misurato in quegli anni durante le jam session, i duelli tra jazzisti che si tenevano nelle cantine. Tutte le sere mi ritrovavo a essere il peggiore, e non era esaltante: a 23 anni rinunciare a un sogno di quelle dimensioni non è stato semplice. Deporre il clarinetto nell’astuccio credo, però, che sia stato un gesto di grande consapevolezza, ma anche il sommo dolore della mia vita».
Se non avesse rinunciato, non avrebbe intrapreso la sua carriera nel cinema. Crede nel destino?
«Voglio farlo, perché credo di dover essere risarcito dal destino, anche se non so bene di cosa. Dopotutto non ho avuto una vita così orrenda. Vendevo il pesce surgelato e mi sono ritrovato a fare più di cinquanta film quando mi sembrava impossibile realizzarne solo uno. Ho avuto tanto, tuttavia sono insaziabile. Mia moglie continua a dire che sarò risarcito dopo che sarò morto. Lo dice in maniera rassicurante, ma da una parte mi piace e dall’altra no. Perché nessuno sa cosa accade quando si muore».
Secondo lei cosa accade?
«Fortunatamente non lo sappiamo, ma dovremmo chiedercelo in continuazione. Se penso alla morte, mi tormenta il dolore enorme dei miei figli, e quasi mi sento in colpa: penso che morire sia una delle cose più gravi che tu possa fare nei confronti di chi ti vuole bene. La morte vuol dire dare dolore a chi resta, ed è per questo che la sto blandendo parlandone in continuazione, facendola diventare oggetto delle cose che faccio. Nella cultura contadina che mi ha cresciuto la morte era una porzione della vita, oggi ci hanno insegnato che la morte è quella degli altri».
A proposito della morte, lei ha detto che, anche a causa del nuovo Dpcm, il cinema rischia di morire.
«La sala è diventata quasi anacronistica, riservata alle minoranze, specie con un’offerta cinematografica che passa sempre più attraverso le piattaforme. Questo lockdown, però, ha portato a una chiusura inspiegabile, e nessuno riesce a capirne il perché: in estate i cinema erano molto più sicuri dei pronto soccorso, non c’era il rischio di sfiorare nessuno. L’aggravante è che non ci è stato detto perché lo hanno fatto».
Al di là della sala in sé, il rischio riguarda tutti i film prossimi all’uscita e quelli in via di definizione.
«Ho finito un film che era in uscita, mentre dovevo iniziare le riprese di quello su Dante per i 700 anni. È un po’ come i treni che devono entrare in stazione ma trovano i binari tutti occupati. Come si fa a partire con una nuova produzione quando hai un film che non ti è ancora uscito? Così si paralizzerà tutta la filiera produttiva».
Che sentimenti le provoca questa prospettiva?
«Molta tristezza, anche perché non abbiamo gli strumenti per imparare a convivere con questo problema. Durante i bombardamenti i cinematografi a Bologna erano aperti, ed è per questo che non si riesce a trovare un senso a quello che sta succedendo oggi. Capisco che ci si trovi impreparati di fronte a tutto questo perché nessuno aveva mai affrontato niente del genere prima d’ora, ma siamo recidivi. Oggi siamo messi peggio di cinque mesi fa: c’è più paura, spavento e rabbia di prima. Mi sembra grave continuare ad andare per tentativi».
A proposito di bombardamenti, lei la guerra l’ha vissuta e l’ha anche descritta nella sua autobiografia. Scrive che sua madre da piccolo le diceva «è molto buono, ma troppo bugiardo». Oggi lo è ancora?
«Lo sono sempre di più, specialmente con me stesso. Mi impegno in un futuro che statisticamente non potrei vivere. A 82 anni dovrei iniziare a ragionare in termini più brevi ma, al contrario, sto progettando cose che mi dovrebbero far vivere per anni e anni. Insomma, continuo a preparare il mio discorso di ringraziamento per l’Oscar».