L’economia del bene comune
«In questo libro intendo mettere a nudo in modo argomentativo il paradigma del libero commercio, per proporne uno nuovo: il paradigma del commercio etico», così il giovane economista austriaco Christian Felber (nella foto), fondatore del movimento internazionale dell’Economia del Bene Comune, presenta il suo libro Si può fare! Per una nuova economia globale fondata sul commercio etico (Aboca Edizioni, pp. 264, € 20).
La sua idea è quella di realizzare un’economia che metta al centro diritti e sostenibilità, creando una «Zona di Commercio Etico sotto l’egida dell’ONU».
Secondo Felber il fine delle relazioni economiche è, o dovrebbe essere, una piena attuazione dei diritti umani, uno sviluppo sostenibile, una buona vita per tutti. Il commercio sarebbe dunque un mezzo, non certo un fine.
E così si indaga sulle disuguaglianze create dalla World Trade Organization (WTO), dalle corporation transnazionali e da accordi politico-economici che nel nome della libertà del commercio favoriscono la creazione di ricchezza, relegandola però nelle mani di pochi soggetti, enormi multinazionali che fanno il bello e il cattivo tempo.
In che senso, come si comportanto le Multinazionali?
«Tra il 1990 e il 2009 ci sono state 2.200 fusioni. Questo processo ha contribuito a creare degli oligopoli capaci di indirizzare fortemente le politiche economiche internazionali. Nel 2007 le dieci maggiori aziende a livello mondiale nel settore dell’industria alimentare, biotecnologica e agrochimica controllavano il 55% del mercato farmaceutico, il 66% di quello delle biotecnologie, il 67% del mercato privato delle sementi. Le multinazionali hanno inoltre sempre maggiore potere negoziale nei confronti degli Stati: molti dei 3.400 accordi bilaterali per la protezione degli investimenti prevedono il diritto da parte delle imprese investitrici di intentare cause dirette contro gli Stati (ISDS). L’85% di tutte le cause legali è intentato da paesi industrializzati, e 3/4 sono dirette contro Paesi in via di sviluppo. Alla fine del 2016 il 26,4% dei procedimenti era stato risolto a favore dei grandi gruppi multinazionali, mentre il 25,7% era sfociato in un accordo. Pertanto, oltre il 50% del totale dei procedimenti ha portato a dei benefici per le multinazionali».
Ma il libero commercio da lei così criticato non potrebbe in qualche modo favorire invece la crescita dei paesi in via di sviluppo, coinvolgendoli in un mercato più ampio?
«Il libero commercio, o come o chiamo io “Commercio reciproco tra disuguali”, fa sì che i Paesi con un basso livello di sviluppo arretrino ulteriormente. È il caso di molti Paesi del Sud dell’Asia, dell’Africa e dell’America Latina: tra il 1960 e il 1962 il reddito pro capite dei 20 Paesi più ricchi era 54 volte più alto di quello dei 20 Paesi più poveri; tra il 2000 e il 2002 era già di 122 volte più alto. Il gruppo dei paesi meno sviluppati (LDC, Least Developed Countries) è raddoppiato dall’inizio della sua definizione 50 anni fa, passando da 25 a 48 membri. Il libero commercio ha messo in crisi la produzione industriale di numerosi paesi: l’Argentina ci ha rimesso la sua industria meccanica, nella Costa d’Avorio sono collassate l’industria chimica, delle calzature e delle componenti automobilistiche. In Kenya i posti di lavoro nel settore tessile si sono ridotti da 120.000 a 85.000».
E nei Paesi più in difficoltà, non potrebbe essere l’agricoltura ad offrire occasioni di sviluppo?
«I piccoli possidenti vengono spazzati via: in Messico, dopo l’adesione al NAFTA (North American Free Trade Agreement), 1.3 milioni di agricoltori hanno abbandonato l’attività. In Kenya la produzione di cotone è calata da 70.000 a 20.000 balle. In Senegal la produzione di pomodori è scesa da 73.000 a 20.000 tonnellate».
E che ne sarà delle risorse naturali?
«Precisamente, l’idea e questa: ciò che il nostro pianeta elargisce annualmente all’umanità in termini di risorse biologiche viene ripartito fra tutte le persone e garantito come diritto umano ecologico e come diritto di consumo, nel senso di un diritto fondamentale incondizionato, non negoziabile e inalienabile. Tutti gli esseri umani hanno diritto al consumo dell’ottomiliardesima parte di ciò che la natura ci regala ogni anno, senza con ciò deteriorare gli ecosistemi del nostro pianeta o ridurre in modo significativo o privare altre specie del loro habitat. Il budget di consumo ecologico globale dell’umanità si ridurrebbe almeno del 50% rispetto a quello attuale».