Sei grande grande grande
Questo articolo è stato pubblicato sul numero 9 di «Vanity Fair», in edicola fino al 4 marzo.
C’è un momento esatto in cui, guardando i tuoi genitori, pensi che non si lasceranno mai, credi davvero che andranno contro tutte le leggi della natura, giuri con fermezza che è impossibile che proprio quelle due meraviglie di corpi e anime uniti, da sempre insieme, a cui devi tutto, siano soggette, come tutti i restanti
comuni mortali, alle regole insindacabili dell’universo. Questo momento è diverso di figlio in figlio, di famiglia in famiglia, di casa in casa, di ricordo in ricordo. Qualcuno lo riconosce in momenti solenni, in anniversari o celebrazioni felici di quella che è una vita passata insieme.
Per me no, quell’istante lì non è passato attraverso la solennità di qualche commemorazione importante.
Nella mia testa quell’attimo ha i contorni precisi di un piccolo gesto quotidiano, quello che sembra insignificante e che dovrebbe passare senza lasciare traccia nella memoria di un figlio: una canzone cantata all’unisono da mio padre e mia madre, un’incantevole melodia urlata dolcemente occhi dentro occhi, mani dentro mani.
Le loro voci, ricordo, invano cercavano di coprire quella inconfondibile e unica di Mina e la canzone era Grande, grande, grande…
Mio padre era quell’uomo capriccioso i cui difetti erano talmente tanti da non saperli riconoscere e mia madre era quella per cui mio padre al momento giusto sapeva diventare un altro e in un attimo diventava tre volte più grande. Dall’altra parte della canzone e della loro danza d’amore in cui si amavano e si odiavano e si amavano e poi… si odiavano, c’ero io che proprio avevo il cuore a mille, che proprio non c’era cosa più bella, che proprio boh… nessuno mai come loro. Solo una canzone, niente di più, a ricordarmi di quanto sia bugiarda la vita e di quanto sia bellissimo illudersi che sia per sempre.
Nella voce di Mina, il ricordo più bello di sempre e nello stesso tempo la delusione, quella devastante e insormontabile di diventare grande.
Poi, col tempo, da spettatore privilegiato di quella danza d’amore e di vita, passai a essere il musicista della colonna sonora di quel film vincitore di cento premi Oscar e sempre primo al botteghino di casa mia, solo a casa mia.
Attori protagonisti erano i miei genitori.
Avevo appena imbracciato la mia prima chitarra, classica, quella munita di diapason, custodia morbida (quella rigida era un sogno grande quasi quanto cantare in giro per il mondo, portava con sé la stessa emozione…) e immancabile metodo per autodidatta (a sole ottantamila lire), che subito cercai di intonare quel «grande, grande, grande…».
Sentivo esplodere il cuore quando provavo a cantare che con «lei» avrei dovuto combattere e che non la si poteva prendere per com’era, ma proprio non riuscivo a pensare che fosse una «lei» quella a cui riferivo le parole della canzone.
Per me quelle parole erano solo mio padre e mia madre che cercava di non farsi lasciare mai più.
E allora cantavo per loro ed ero Mina, intorno a loro, con le loro voci insieme alla mia.
Se avessi cantato bene, con una voce da bambino, forse li avrei convinti tutti e due a non lasciarmi mai più, li avrei portati a distruggere il dogma ineluttabile della mortalità. Avevo dodici anni e pensavo che la musica, la grande musica poteva addirittura cambiare le leggi del mondo.
Mina poteva fermare quell’istante e renderlo eterno.
«Non lasciarmi mai più» cantavo a loro che si guardavano e cascavano nei loro rispettivi occhi, incuranti che dall’altra parte il musicista a servizio era il loro piccolino.
Anche questo fa la grande musica, pensavo: cancella i ruoli, non si è più padri, figli, amanti e amati.
Si diventa un tutt’uno con un sentimento unico che è impos- sibile da decodificare a parole, ma che irrompe nella vita di ognuno di noi e fa volare ogni cosa in un turbinio di emozioni infinite.
Avevo dodici anni e cantavo Mina, perché volevo perdermi in quella voce in cui io non ero più io e non avevo nemmeno dodici anni, anzi c’ero da sempre da quando Mina aveva dodici anni e forse non cantava nemmeno.
Sentivo che c’ero e potevo essere qualsiasi cosa e che mio padre e mia madre erano semplicemente un uomo e una donna, che si amavano e che non avevano nemmeno mezzo di quei tre figli che avevano e che amavano sopra ogni cosa. Amavano solo se stessi, un egoismo in cui ti puoi nascondere e che ti può concedere solo la musica, quella grande.
Quella grande musica era tutta nella voce di Mina.
«Sei grande, grande, grande come te, sei grande solamente tu…» finivo di cantare che le parole erano di nuovo al loro posto, le cantavo nella mia bocca dedicandole, improvvisamente, a una «lei», non più a mio padre.
Grande era Mina, grande era la sua voce, grande era quello che mi aveva lasciato dentro: la voglia di diventare qualcosa che le assomigliasse, un cantante, forse, di dodici anni ma senza età.
Oggi ho superato i quaranta, mio padre mi ha lasciato, non c’è più, mia madre ascolta quella voce e pensa a lui, che non c’è più, Mina canta le mie canzoni.
Mio padre è di nuovo in questa stanza che balla con mia madre le canzoni di suo figlio, cantate da Mina.
E così sia, Brucio di te a ripetizione per provare a crederci ancora, a mio padre che è passato da questo pianeta, a me che sono diventato qualcosa di simile a quello che sognavo, a mia madre che starà ancora qui con me, per tanto, tanto, tanto tempo ancora.
Non era così grande come dicevo la grande musica di Mina? Provate a contraddirmi, se potete. Intanto canto: «sei grande» per tre volte…