Sumaya Abdel Qader: «Il mio velo ribelle e femminista»
«Portare il velo è il più grande segno di emancipazione di una donna, oggi come oggi un atto ribelle e femminista». A scriverlo è Horra (che in arabo significa libertà), la protagonista del secondo romanzo di Sumaya Abdel Qader, Quello che abbiamo in testa (Mondadori). Un frase pubblicata sul suo profilo Facebook che non è solo una provocazione ma anche un pensiero preciso.
Lo racconta benissimo Sumaya, che ancora oggi, dopo 41 anni di vita in Italia, Paese in cui è nata da genitori giordano-palestinesi, e dove si è sposata, laureata per tre volte (in Biologia, in Mediazione Linguistica e Sociologia) e diventata mamma di tre bambini, deve ancora battersi per uscire di casa indossando il velo senza essere additata come una terrorista o qualcosa di simile. Per non parlare delle minacce e gli insulti, che l’accompagnano da tempo e si sono acuiti da quando, nel 2016, è diventata la prima consigliera comunale musulmana a Milano.
Cosa ti ha spinto a scrivere questo romanzo?
«Il libro nasce dall’esigenza di rispondere alle tante domande che ogni giorno mi vengono poste. L’ho fatto attraverso tante voci, diverse una dall’altra, affinché potessero rispecchiare almeno una parte della pluralità esistente».
Com’è cambiata in questi anni la protagonista del tuo primo libro Porto il velo, adoro i Queen?
«Il primo libro è diverso dal secondo, sia per la forma, un romanzo il secondo, che per i temi trattati. Nel primo c’era la voglia di tenere un tono di voce leggero, ironico e divertente che sdrammatizzasse il clima di islamofobia che aveva iniziato a radicarsi da tempo dopo l’11 settembre. Qui il tema centrale è quello della cittadinanza e identità. In Quello che abbiamo in testa, invece, la protagonista, è più matura e riflessiva e il tema centrale è l’essere donna musulmana a 360 gradi, nel tentativo di decostruire molti stereotipi e pregiudizi diffusi».
Anche l’Italia è più matura?
«L’Italia è cambiata. Per certi versi cresciuta e migliorata per altri versi in stallo e o regredita. Parlando di questi ultimi due penso all’ immigrazione, ai figli di immigrati e la mancata riforma della legge per la concessione della cittadinanza ed oggi all’accoglienza dei profughi. Non ci sono state e non ci sono politiche lungimiranti. Rispetto a quando ero una ragazzina l’ Italia purtroppo è sempre più chiusa e intollerante, arrabbiata e incapace di rispondere alle vere criticità del Paese».
Quali sono?
«Povertà in crescita, disoccupazione, qualità della sanità, qualità dell’istruzione, questione ambientale, ecc. E rispetto a chiusura e intolleranza, molta responsabilità ce l’hanno certi politici ed intellettuali in cerca di consenso che hanno strumentalizzato e a volte manipolato temi importanti come quelli dell’immigrazione, dell’emergenza profughi, dei musulmani e dell’islam e così via facendo crescere la tensione nel paese verso chi appartiene a queste categorie».
In tutto questo è finito anche il pregiudizio verso chi indossa il velo. Perché indossarlo è anche un atto di femminismo?
«Nel libro ad un certo punto la protagonista esordisce con questa frase, ovvero che indossare il velo può essere un gesto femminista e ribelle. Perché se fatto in libertà è espressione dell’autodeterminazione di una donna, in coscienza e consapevolezza senza piegarsi a modelli preconfezionati».
In alcuni Paesi è simbolo di oppressione.
«Comprendo questa idea. Perché in certi paesi e comunità islamiche lo è. Il velo, il niqab, il burqa e certi divieti sono contro le donne. Hanno l’obiettivo di annullarle e sottometterle. Sono ideologie figlie di società a tradizione patriarcale e misogine che interpretano la religione in questa chiave».
L’islam?
«Questo non ha a che fare con il messaggio originale dell’islam che è stato ampiamente tradito nel tempo e nello spazio. L’islam oltre 1400 anni fa dava rivoluzionari diritti alle donne (se si pensa a cosa c’era qui nello stesso periodo): divorzio, contraccezione, studio, disporre dei propri beni e di sé, scegliere chi sposare o non sposare, gestire la propria vita in autonomia, essere guida religiosa, eccetera. Ci sono società che queste libertà le hanno valorizzate mentre altre no».
Da cosa dipende?
«C’è un preoccupante analfabetismo religioso e regressione nella comprensione religiosa tra i musulmani, che per lo più seguono tradizioni tribali e locali che hanno fagocitato lo spirito originale di questa religione e c’è l’oppressione di molte società a maggioranza musulmana da parte di regimi e forze estremiste che impongono una visione della religione estremista, parziale, fuorviante e pericolosa. Per tornare al velo, questo dovrebbe essere niente meno che un esercizio spirituale. Non imposto ma liberamente esercitato».
La protagonista del suo romanzo si chiama Horra, che significa libertà. Si sente libera in Italia?
«Mi sento libera, sì. Ma per esserlo e per essere riconosciuta per le mie specificità spesso bisogna affrontare non facili battaglie. Essere liberi significa avere la possibilità di tutelare i diritti fondamentali delle persone».
Riceve ancora minacce?
Capita ancora. Ma so che sono espressione della paura e dell’incapacità di leggere la complessità di questo difficile mondo. Il hate speech si combatte con la conoscenza, con l’arte e la bellezza».