Chiara Martegiani: «Che mi prenda un fulmine»
Questo articolo è pubblicato sul n. 8 di Vanity Fair, in edicola fino al 26 febbraio
È quasi sempre bello se dal buio arriva il giorno: «Sto guidando di fronte alle Terme di Caracalla, il cielo è molto scuro e a breve pioverà. A un tratto non vedo più niente, entro in un fascio di luce e pochi secondi dopo avverto una botta tremenda. Il tettuccio della macchina implode, il clacson non funziona più, il motore fuma. Intorno a me si è creato un piccolo capannello. La gente dice: “È viva, è viva”. Qualcuno mi chiede: “Si sente bene?”. Il traffico si blocca. Un paio di curiosi scattano fotografie». Nella biografia di Chiara Martegiani ci sono lampi, saette, piccoli miracoli e domande senza risposte: «Essere stata colpita da un fulmine e poterlo raccontare lo ascrivo alla divina provvidenza?». Con un genetliaco che spesso la vede brindare con se stessa «compio gli anni il 12 agosto e credo che compleanno più triste non esista: non c’è mai nessuno. L’unica volta che mi hanno organizzato un ricevimento a sorpresa, a Pantelleria, per i miei 30, non sbarcò per le condizioni del mare un solo essere umano» e l’ironia come compagna di viaggio «sarebbe difficile fare il mio mestiere senza saper ridere delle sue pause infinite, prenda me: faccio più o meno un film ogni dieci anni» Martegiani, premio Biraghi per Ride di Valerio Mastandrea, in marcia, è stata spesso: «Los Angeles, Londra, Barcellona, Villa Verucchio. Scelga lei».
La meta meno esotica.
«Cinquemila persone appoggiate a due passi da Rimini. Il luogo in cui i miei si insediarono dopo essersi conosciuti in Abruzzo, sui banchi dell’università. Dentisti, entrambi».
Sarebbe stato il suo destino?
«Avrebbero voluto seguissi le loro orme, ma l’ha fatto solo mio fratello. Da bambina passavo le giornate nel loro studio, gli passavo gli strumenti, ascoltavo le lamentele dei pazienti e osservavo gli sguardi un po’ storditi dei sopravvissuti riemersi dopo una lunga seduta. Tutta sdentata, ero tra loro. Ho usato il ciuccio, vergognosamente, fino ai 9 anni. Per rimediare al disastro mi misero una griglia in bocca. Forse a dissuadermi fu l’esperienza personale».
Cosa avrebbe voluto fare da grande?
«La cavallerizza. Dopo aver mollato presto le velleità da danzatrice, dai 10 ai 19 anni ho praticato l’equitazione a livello agonistico. Con mio padre condividevo una passione che non di rado sfociava nella malattia. Ho fatto due campionati europei, ho sfiorato le Olimpiadi di Pechino, era una cosa molto seria».
Come mai non ha continuato?
«Forse perché ogni innamoramento ha il suo punto di rottura o perché ero molto piccola, facevo gare importanti e portavo sulle spalle tante responsabilità. Papà era sì il mio complice, ma era anche un osservatore severo. Se sbagliavo, percepivi le sue urla a chilometri di distanza».
E le metteva ansia non poter sbagliare?
«Moltissima. Al principio facevo salto a ostacoli. Iniziavo benissimo ed ero sempre molto brava fino al momento decisivo. Poi subentrava l’ansia e quell’ansia la estendevo anche al cavallo. È una spugna, il cavallo. Sente tutto. Avrei voluto continuare con il dressage, ma costava troppo e così piano piano mi allontanai da quel mondo».
Va ancora a cavallo?
«Non più. Anni dopo, quando per tirare su qualche soldo mi misi in testa di prendere un brevetto per insegnare, mi ruppi una vertebra, nella maniera più stupida e sfortunata possibile».
Come accadde?
«Non cavalcavo da molto tempo e non ero più allenata. A fine giornata il cavallo inciampò. Mentre stavo scendendo e lui era a terra, improvvisamente, si rialzò. Il contraccolpo mi fece stare tre mesi a letto. Io, il busto e i miei pensieri».
Che pensieri erano?
«La testa se ne andava per conto suo. Una volta in piedi, me ne andai anche io. Prima di prendere un biglietto per Londra accarezzai l’idea di aprire un negozio di sigarette elettroniche. Girai con un mio amico alla ricerca del posto giusto, ma accumulammo un fatale ritardo. Il mercato si era già espanso e alla fine, grazie a dio, rinunciammo. Così dopo l’esperienza di Los Angeles, una follia intrapresa dopo la morte di mio padre, partendo da sola, con la scusa di imparare l’inglese, decisi di trasferirmi in Inghilterra».
Con che scopo?
«Avevo già fatto dei film ed ero stata presa al Centro Sperimentale di Cinematografia. La domanda l’avevo fatta in extremis, su insistenza dei miei: “Se vuoi fare l’attrice devi studiare”. Il gruppo di lavoro era fantastico, ma dopo un anno mi chiamarono per un film, decisi di dire di sì e stupidamente chiesi al direttore di bocciarmi o di farmi recuperare i mesi che avrei perso. Senza sapere neanche come, tra un’incertezza e un’ipotesi improbabile, mi ritrovai fuori dalla scuola».
A Londra invece come andò?
«Da un lato rappresentò l’opportunità di dimostrare che potevo mantenermi da sola, dall’altro la mia Dolce Vita. Iniziai facendo la cameriera. Io, Anna, il mio cane, molto divertimento e una casa un po’ meno vuota di quella di Los Angeles. Poi, siccome i soldi non bastavano mai, cambiai lavoro. Con la Real Estate, si guadagnava molto meglio. Feci dei colloqui e divenni agente immobiliare in un mercato impazzito in cui gli acquirenti italiani avevano un peso. Poi accadde l’imponderabile».
In che forma?
«Mi proposero un film. Feci il provino via Skype e venni presa. Sembrava andare tutto bene. Il mio agente di allora diceva: “Nun te preoccupà” e scioccamente mi fidai. Mi licenziai dall’agenzia e mi proiettai verso i miei sogni in meno di 48 ore. Quando ricevetti una sua telefonata ero già sulla scaletta dell’aereo “Me dispiace Chià, il film è saltato” disse e io mi ritrovai senza lavoro all’improvviso, con il culo per terra».
Chi la aiutò?
«Una mia amica. Mi disse che da Burberry’s cercavano una persona nell’ufficio vendite e che lo stipendio era ottimo. Altro giro, altro colloquio, altro colpo di fortuna. Da un giorno all’altro mi ritrovai in uno showroom. Nelle pause, per non abbandonare completamente il mio antico sogno tornavo a Roma per frequentare qualche corso di recitazione o incrociare al volo un provino. Mi domandavo cosa volessi fare davvero nella vita: avevo quasi trent’anni, non potevo più rimandare».
Il suo primo set?
«Una piccola parte in Un gioco da ragazze di Matteo Rovere. Era una scena complicata: aprivo la porta di un bagno e scoprivo che il mio fidanzato mi tradiva con un’altra. Si rivelò un inferno. Non sapevo dove mettermi, ero emozionatissima, non mi abbandonava mai l’idea di aver fatto solo un gran casino».
È venuta a patti con la precarietà di un mestiere in cui si attende sempre una telefonata per mettersi in moto?
«È un lavoro in cui dici “arriverò” senza poi arrivare mai. E poi: cosa vuol dire arrivare? Ho interpretato Ride. Un’opera molto bella e un’occasione che non so quando mi ricapiterà. Forse puoi sentirti appagato dopo 50 film, ma nel mezzo c’è tutta l’incertezza del mondo. Comunque mi sento ancora al principio di un’avventura. Si cresce e si cambia in continuazione. Ho molto da capire, c’è tempo».
Crede nella fortuna?
«Ho smesso. Anni fa andavo in motorino al maneggio: in aperta campagna caddi in uno scarico delle fogne a cielo aperto. Mi ritrovai, letteralmente, in un mare di merda. Si dice che porti fortuna, ma ho imparato a dubitarne. Faccio pochi film e sono fidanzata con Valerio Mastandrea. Posso sostenere davvero che mi sia andata bene?» (ride)
Come l’ha conosciuto?
«Ero a una cena da amici. Lui arrivò trafelato dal cinema. Finisce la cena, ci spostiamo in una birreria e scambiamo qualche parola. Lui dice che all’inizio facevo la sostenuta. E forse chissà, è anche vero. Decidiamo di prenderci un caffè un paio di giorni dopo. Appuntamento alle 11 di mattina. Passano dieci minuti e non si vede nessuno. Ne passano venti e non accade niente. Allo scoccare della mezz’ora mi alzo e me ne vado. A fine balletto scopriamo entrambi di aver sbagliato appuntamento e ne fissiamo un altro. È cominciata così, come in un film di Woody Allen».
Un copione quasi più complesso della sua prova in Ride.
«Il film l’ho affrontato con leggerezza. La paura di essere all’altezza è venuta dopo. Prima no, avevo seguito tutte le fasi di scrittura e in Carolina, la protagonista, percepivo una levità capace di volare sopra le cose, sopra il lutto, sopra il dolore».
Cosa le ha lasciato un ruolo così forte?
«La consapevolezza che non ho più voglia di star ferma. Ho deciso che non posso aspettare un’altra decade prima di fare un altro film. Avevo in testa un’idea e ho sentito il bisogno di realizzarla. Così con Elisa Casseri e Carlotta Corradi abbiamo messo in piedi un team di scrittura e immaginato una serie su una donna di trent’anni. Il progetto interessa a una produzione e tra qualche mese spero prenda il via. Va bene avere tempo libero, ma il patto che ho fatto con me stessa è di impiegarlo meglio».
È una scommessa?
«Un investimento. Un tuffo nella passione e un modo di evadere dall’incertezza. Il domani non mi spaventa. La puntata questa volta la faccio su me stessa. Parafrasando Rimini di De André: “Voi che siete lì tra i gelati e le bandiere / non fate più scommesse sulla figlia del dentista”».
Foto di Luisa Carcavale