Di Maio si dimette. Ecco perché
Nel pugilato si stanca di più quello che si difende dai colpi, mica quello che lì tira. E Luigi Di Maio, nell’ultimo anno e mezzo, non ha fatto altro che schivarli o incassarli. Dopo sei anni, due governi, tre fidanzate e un numero indefinito di cambi di opinione, ha deciso di lasciare l’angolo con la spugna a terra, e dimettersi dal ruolo di leader del Movimento 5 Stelle. Il passo indietro arriva un mercoledì pomeriggio, quattro giorni prima del voto in Emilia Romagna e della probabile, attesa, disfatta di quello che era il principale partito italiano.
COSA SUCCEDE ADESSO
Giggino, com’è chiamato un po’ malignamente dai suoi detrattori interni, dovrebbe presentare pure gli «86 facilitatori regionali», una formula delle sue per indicare i segretari locali nelle regioni dei 5 Stelle. Cosa succederà dopo, ancora, non si sa. L’era Di Maio potrebbe essere seguita dall’era Di Battista, oppure da una reggenza transitoria affidata al sempre rassicurante Vito Crimi. C’è addirittura chi ipotizza un passo indietro strategico di Di Maio, che dopo la disfatta delle Regionali, e al probabile caos interno che seguirà nel partito, potrebbe ritornare sui suoi passi e ripresentarsi come l’unico capace di tenere in piedi un movimento apparentemente allo sbando.
GLI INIZI
Di sicuro, come si diceva per i grandi partiti, finisce una stagione. Una stagione iniziata nel 2010, quando un 24enne di Pomigliano d’Arco, figlio di padre Antonio ex dirigente Msi, si candidò alle comunuali con l’allora neonato M5S. E raccolse 59 voti. Una stagione proseguita nel 2013, quando quel giovane si fece eleggere in Parlamento, ottenne la vicepresidenza della Camera e soprattutto la stima dei colleghi di partito. Il motivo? Era uno dei più scafati a capire il regolamento parlamentare. Forse addirittura a leggerlo. Girava sempre in giacca e cravatta, ed era il più credibile. L’inizio dell’ascesa.
L’ABBRACCIO MORTALE CON SALVINI
Per cinque anni di opposizione, Luigi Di Maio divenne il volto più istituzionale del Movimento, afficancato e spesso rafforzato da quello più movimentista di Alessandro Di Battista. Poi, con le elezioni del 2018, è venuto il momento di governare. Ed è iniziato il disastro. Nell’ansia di governare, il leader si lega a Salvini. E lega più di tutto se stesso. Asseconda ogni richiesta del ben più scafato collega di governo. Si costringe a retromarce, si arrabatta in giustificazioni, inciampa su formule inventate sul momento. Ancora memorabili quelle dei «navigator» o quella del «mandato zero».
LE GIRAVOLTE SU TUTTO
Cambia idea su tutto, Giggino. Su Mattarella: prima «il nonno di tutti gli italiani», poi il «complice dell’establishment» e «traditore della Costituzione». Su Carlo Cottarelli, prima guru e poi burattino «del Fondo monetario internazionale». Su Salvini stesso, prima uno i cui «insulti li metto nel curriculum». Poi uno con cui «faremo grandi cose». Successivamente di nuovo un traditore, da sostituire con il Pd. Perde ogni battaglia politica, sia esterna che interna, tradito da quella inesperienza che ne ha decretato il successo. Nel giro di un anno e mezzo trascina giù il partito dal 32% dei voti al 16%. E personalmente scende nei sondaggi di gradimento al 16%, dopo il ben più popolare Giuseppe Conte (37%, Matteo Salvini (37%), Giorgia Meloni (34) e addirittura Nicola Zingaretti (24). E più di tutto, agli occhi di molti perde la credibilità. La percezione che gli italiani hanno di lui cambia. Dal cognato brillante in carriera che ogni mamma italiana vorrebbe, si trasforma forse ingiustamente nel figlio presuntuoso e un po’ imbranato incapace di farsi valere con i più grandi.
IL PASSO INDIETRO
Tra inciampi e contraddizioni, in una sera di mezzo inverno, è costretto a lasciare la scena. Sulla sua pagina Facebook i fan cercano di trattenerlo:« Luigi non mollare». «Abbiamo bisogno di te». «Mai visto un giovane politico così serio». Lui per ora non ascolta. Lascia il ring per un po’, anche se non ufficialmente. L’uomo fatica sempre di più. Non ne può più dei colpi presi.