Vantaggi (e problemi) delle isole artificiali
L’ultima frontiera dell’espansione umana si chiama «land reclamation». Nuove terre vengono innalzate dal mare per sostituire quelle sommerse o per ampliare un Paese. Ma ci sono pesanti effetti collaterali.
Isole che sorgono, isole che scompaiono. Ecco un’immagine del nostro tempo. Sorgono quelle costruite dall’uomo, nelle Maldive, a Dubai, in Cina, in Azerbaigian, in Olanda... la lista è pressoché infinita. E scompaiono sotto il mare quelle che sono vittima dei cambiamenti climatici, come negli arcipelaghi delle Maldive, delle Hawaii, di Spratly e di Tuvalu. Prendiamo uno dei casi più emblematici, le Maldive. La previsione è che entro il 2100 tutte le 1.190 isole saranno sott’acqua. Da qui il progetto di crearne di nuove, tra cui quelle galleggianti per turisti, ma anche una che ospita una città e un’altra che funziona da discarica per la spazzatura prodotta dai turisti stessi. Di queste, Hulhumalé, anche chiamata «Città della speranza», è un rettangolo urbano di 188 ettari con file di condomini anonimi e una popolazione di circa 30 mila abitanti. Nella fase finale sarà grande 400 ettari, avrà edifici alti e sfarzosi e ospiterà più o meno 250 mila persone, una buona metà della popolazione totale delle Maldive. Dove andranno gli altri abitanti non è chiaro, tra le possibilità il trasferimento di massa in India.
Nel 2016, Malé ha approvato una legge che consente agli stranieri di acquistare terreni nel Paese insulare, a patto che abbiano un miliardo di dollari da investire e che il 70 per cento della terra ottenuta sia parte di isole artificiali. Queste ultime vengono costruite con il metodo della «land reclamation» (sottrazione di terra al mare): il materiale di riporto, sia esso costituito da sabbia o barriera corallina, viene spostato e l’area è riempita prima con grandi quantità di roccia pesante o cemento, poi con argilla e terra fino al raggiungimento dell’altezza desiderata. Robert Nicholls, direttore del Tyndall Centre for Climate Change Research all’Università dell’East Anglia (Inghilterra), che ha lavorato al progetto nelle Maldive, spiega: «Secondo le nostre stime, l’intera popolazione potrebbe andare a vivere in due sole isole create a un’altezza del livello del mare tale da resistere alle future inondazioni. Ma bisogna essere onesti sul fatto che saranno cosa ben diversa dalla bellezza ritratta nei dépliant turistici. Inoltre, i metodi di costruzione potrebbero avere conseguenze ambientali di non poco conto». Non è un caso se poche settimane fa la rivista scientifica Nature ha ospitato un articolo nel quale si spiegava che le barriere coralline muoiono quando, durante la costruzione delle isole artificiali, i sedimenti vengono scaricati su di esse per creare nuova terra.
Ocean Flower Island, l’arcipelago artificiale al largo di Danzhou, Cina meridionale, è forse l’esempio più appariscente. Ancora in fase di realizzazione, quest’opera mastodontica prevede la costruzione di tre isole dalla superficie di circa 400 ettari che ospiteranno 58 hotel, 28 musei, un anfiteatro, una pista di pattinaggio su ghiaccio, ville lussuose e il centro congressi più grande al mondo. Ma l’intero progetto è macchiato da un «peccato originale»: il politico locale che aveva dato il via libera all’inizio dei lavori è stato processato per corruzione e violazione delle leggi sulla protezione dell’ambiente. E difatti, anche qui la costruzione con la «land reclamation» ha provocato danni alle barriere coralline. Si potrebbe dire che Ocean Flower Island (vista dall’alto sembra costituita da tanti petali di un fiore attorno alla corolla), è la risposta cinese alla famosa isola artificiale di Palm Jumeirah, a una ventina di chilometri dal centro di Dubai. A forma di palma e collegata alla terraferma da un doppio ponte, è un tripudio di hotel e super ville che fanno pensare alle considerazioni del geografo Alastair Bonnet nel suo recente libro Elsewhere: a Journey into Our Age of Islands (nella presentazione già si legge: «La storia delle isole del mondo è uno dei grandi drammi del nostro tempo»).
Al momento le isole artificiali sono quasi sempre un luogo per ricchi, i soli che vi possono accedere, costruito da imprenditori privati piuttosto che da Stati nazionali. Potranno fare eccezione un diverso tipo di isole artificiali, quelle galleggianti. La loro particolarità è che sono ancorate nel fondo del mare e non prevedono il raschiamento del fondale, con tutte le conseguenze positive per l’ambiente. Un’azienda di costruzioni giapponesi, la Shimizu Corporation, ha progettato Green Float, sorta di isola dalla forma di giglio galleggiante in pieno oceano Pacifico, all’Equatore. Al centro avrà una torre di mille metri su una base galleggiante larga tremila metri. L’intera costruzione è espandibile a dismisura aggiungendo ulteriori moduli-isola. In tal modo il progetto potrà divenire a poco a poco una città, ospitando centinaia di migliaia di persone. L’Olanda ha già fatto scuola in questo settore con il quartiere di Schoonschip ad Amsterdam, che fluttua durante le tempeste. Si prepara adesso a un progetto di città sul Mar Baltico, su piloni di acciaio. Una volta, un italiano, l’ingegnere bolognese Giorgio Rosa, progettò una piattaforma artificiale di 400 metri quadri nel mar Adriatico (l’Isola delle rose). Una volta terminata la costruzione, il territorio si autoproclamò Stato indipendente con tanto di lingua artificiale (l’esperanto), governo, moneta e francobollo. Nessuno Stato straniero la riconobbe e nel 1968 le forze di polizia italiane la fecero demolire. Le isole, da quella che «non c’è» dove vive Peter Pan a quella «del tesoro» di Robert Louis Stevenson (e l’elenco sarebbe davvero lungo), sono da sempre il luogo dell’«utopia», un non-luogo. Un neologismo che nel 1516 l’umanista inglese Tommaso Moro usò come titolo per il suo celebre romanzo, usando come illustrazione proprio l’immagine di un’isola.