Le regole Ue che mettono in crisi il caffè italiano
A causa di recenti normative «green» decise dalla Ue, da dicembre 2024 sarà penalizzato uno dei comparti che più caratterizzano il nostro Paese. Non solo: come «effetti collaterali» c’è il rischio di un aumento di migranti dall’Africa e di nuove incognite per la salute dei consumatori.
Bruxelles ci serve un caffè amaro. Una delle voci più importanti dell’industria alimentare italiana è entrata nel mirino delle politiche ambientaliste dell’Unione europea che con un paio di regolamenti ha determinato un triplo effetto boomerang. Oltre a penalizzare il Made in Italy, crea le condizioni per un aumento dei flussi migratori dall’Africa e, come non bastasse, mette a rischio la salute dei consumatori. Ma andiamo con ordine. Stiamo parlando della crociata europea contro la deforestazione e delle nuove regole sugli imballaggi. Cosa c’entrano gli alberi con il caffè? La Ue ha pensato che mettendo regole stringenti sulle importazioni di materie prime, può dare una mano a salvare le foreste e aiutare il pianeta a essere più verde.
A giugno scorso è entrato in vigore il regolamento europeo sulla deforestazione che prevede, a partire da fine dicembre 2024, per qualsiasi prodotto agricolo importato (non proprio solo caffè, ma anche cacao, soia e olio di palma), una sorta di «bollino verde» con cui si attesta la provenienza da aree non colpite da distruzione forestale dopo il 2020, che rispettano nelle coltivazioni le leggi vigenti nel loro Paese e non usano lavoro minorile o sfruttano gli agricoltori. Le aziende europee che importano il caffè verde saranno obbligate a produrre una dichiarazione di conformità ai requisiti del regolamento. «Il principio è condivisibile ma è di difficile applicazione. Il monitoraggio della filiera, dalle piantagioni alle condizioni della manodopera è molto complesso, ma per il caffè lo è ancora di più» afferma Cristina Scocchia, amministratore delegato di illycaffè, uno dei big del comparto che chiede «realismo sui tempi di applicazione».
Alcuni Paesi, grandi esportatori di caffè, non si sono ancora allineati a tale normativa. Il Brasile, primo produttore mondiale, lo ha fatto e fornisce le coordinate Gps che permettono a ciascuna azienda di tracciare da quale piantagione vengono i chicchi e quindi se tutto è in regola. Ma l’Etiopia, che esporta in Europa il 40 per cento della sua produzione ed è il settimo produttore mondiale e il principale dell’Africa, è ancora indietro. La conseguenza è che le aziende, «tra le quali anche il nostro marchio» ricorda Scocchia, «in previsione delle nuove norme devono smettere di importare il caffè con diversi mesi di anticipo, tanto dura lo stoccaggio prima di mettere il prodotto sul mercato». Il rischio è di doversi disfare di tutto ciò che c’è nei magazzini, se non venduto in zone extra Ue. Non a caso si sono mossi per denunciare gli effetti della normativa europea, anche l’International Trade Centre (Itc), agenzia collegata all’Onu e alla World trade organization, e l’Intercontinental Exchange (Ice), una delle maggiori borse per lo scambio di futures su materie prime che hanno messo in guardia le istituzioni dell’Unione dal rischio che vadano distrutte migliaia di tonnellate di prodotto con ripercussioni sulla disponibilità della materia prima e quindi sul mercato dei prezzi.
L’Intercontinental Exchange, a fine luglio scorso, aveva rilevato che nei magazzini della Ue erano stoccate quasi 150 mila tonnellate di caffè. Inoltre in borsa già alla fine del 2023 erano negoziati future con scadenza (e data di consegna) nel 2025. L’Ice è corsa ai ripari per evitare un impatto sul mercato che coinvolga l’intera filiera dal produttore fino al consumatore, predisponendo un sistema informatizzato di monitoraggio delle origini di queste materie che tenga conto della disciplina anti-deforestazione. Per avere un’idea della posta in gioco bastano alcuni numeri. Nel 2023 l’Europa ha importato 46,4 milioni di sacchi di caffè verde e si prevede che raggiungerà i 47 milioni nel 2024. L’Italia è tra i primi esportatori al mondo di prodotto torrefatto con circa 5,8 milioni di sacchi (346,7 milioni di chilogrammi). È un’industria che dà lavoro a settemila addetti e genera un fatturato superiore a quattro miliardi di euro.
Il problema non è solo per le aziende. Le regole stringenti sulle aree produttive, come conseguenza, rischiano di innescare come si accennava un’ondata migratoria. «In Etiopia lavorano nel settore tra i due e i cinque milioni di contadini. Quindi se il mercato europeo si chiude a dicembre per questo Paese, l’impatto per la popolazione sarebbe drammatico e quei contadini potrebbero andare ad ingrossare i flussi di migranti verso l’Europa» aggiunge Scocchia. Siccome poi la normativa non vale per le aziende con sede extra Ue, i «competitor» americani, svizzeri e asiatici se ne avvantaggiano. La manager poi fa notare che il caffè istantaneo, quello solubile, «è escluso dal regolamento e così si crea una distorsione della concorrenza a vantaggio di coloro che hanno una quota importante di mercato nel cosiddetto “istant”».
Il terzo effetto boomerang delle politiche verde europee riguarda la normativa sul packaging. A novembre 2022 la Ue ha presentato una proposta di regolamento sugli imballaggi che dovrebbe essere approvata entro maggio e interessa anche le capsule del caffè. Entro 24 mesi dall’entrata in vigore delle nuove norme si dovrebbe passare a capsule compostabili. «Questo significa per le aziende dover affrontare importanti investimenti per modificare le catene di montaggio. Inoltre i materiali compostabili hanno un costo tre volte superiore a quelli attuali. Ci sarebbe un impatto anche per i consumatori che dovrebbero cambiare le attuali macchine da caffè perché non più adatte alle nuove capsule» aggiunge Scocchia. «Questo spreco rischia di far più male all’ambiente di un passaggio graduale prima verso materiali riciclabili e poi compostabili dando il tempo alle aziende di adeguare le capsule in modo da non rendere inservibili le attuali macchine».
C’è anche un altro aspetto sul quale la manager del settore invita a riflettere. «Le capsule compostabili sono fatte di materiali instabili. Siamo sicuri che reagendo al cambio di temperatura, alcune microparticelle non vadano a finire nel caffè con un rischio per la salute?». Prima quindi di partire a spron battuto nella trasformazione servirebbero test massicci sulla salubrità dei materiali. «Ma mancano i tempi tecnici per farlo». È paradossale come perseguendo in modo scriteriato gli obiettivi green non ci si preoccupa di danneggiare il made in Italy. A pensar male, si potrebbe credere che sia voluto.