Terapie intensive verso l’esaurimento in Veneto, si convertono i letti dei poli chirurgici
Sistema ospedaliero sotto pressione: l’ondata di ricoveri sta saturando le 658 degenze fin qui attivate, la sanità è in allarme
VENEZIA. Tremila malati in area non critica, quattrocento in rianimazione. In Veneto il nuovo anno si apre sotto il segno del pericolo mentre l’aumento di contagi, ricoveri e decessi promette una settimana di passione nell’attesa che le restrizioni in vigore nelle festività producano i primi effetti apprezzabili. La seconda ondata del Covid nel territorio regionale - è il commento degli esperti - presenta due criticità connesse: la crescita sensibile delle infezioni e la pressione esercitata dalla pandemia sul sistema ospedaliero.
L’accelerata diffusione del virus, anzitutto, simboleggiata dal tasso Rt puntuale di trasmissibilità 1,1 (a fronte di una media nazionale dello 0,93), circostanza che certifica la probabilità di aumento dei casi. Il Veneto condivide questa soglia d’allarme con Liguria e Calabria, altre regioni (Basilicata, Lombardia e Puglia) la superano nel valore medio e altre ancora la sfiorano (Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia, Marche), tanto da indurre l’Istituto superiore di sanità a diagnosticare «un andamento epidemiologico ancora grave a causa dell’impatto elevato sui servizi assistenziali».
L’interrogativo cruciale: perché sul nostro territorio la propagazione del Covid ha raggiunto livelli così allarmanti?
Al riguardo l’opposizione di sinistra, che nella congiuntura intravede un’insperata opportunità di rivincita dopo la rovinosa sconfitta alle urne, leva l’indice contro la fascia gialla - quella di «rischio moderato», vigente fino al Dpcm del Governo in scadenza il 6 gennaio - e accusa il governatore leghista di averla tenacemente difesa a dispetto dei divieti più stringenti ed efficaci introdotti altrove. E c’è chi, è il caso del microbiologo Andrea Crisanti, contesta l’adozione massiccia di tamponi rapidi, ritenuti scarsamente affidabili, sebbene la Sardegna - della quale è consulente scientifico - si appresti ad eseguirne due milioni sulla popolazione.
La replica di Luca Zaia - e dei vertici della sanità nostrana - chiama in causa invece i comportamenti scorretti dei cittadini (assembramenti, negligenza nell’uso delle mascherine, contatti incauti) e le mutazioni genetiche del coronavirus rispetto alle fasi primaverile ed estiva, che ne acuisce l’infettività, ostacolandone il contrasto. Quanto alla permanenza in giallo - il refrain - non riflette l’esito di un negoziato Roma-Venezia, è una classificazione decretata dal ministro Speranza su indicazione «insindacabile» dell’Iss che allo scopo adotta un algoritmo composto da 21 indicatori.
Ma le parole non alterano la realtà dei fatti e oggi ciò che più inquieta è il tasso di occupazione delle terapie intensive, largamente superiore al drammatico picco di marzo. In precedenza il sovraffollamento era stato scongiurato privilegiando il filtro delle cure semintensive (pneumologie e malattie infettive in primis) che ora registrano un flusso ingente di malati, difficilmente sostenibile nel medio termine.
Quanto alla rianimazioni, particolarmente onerose sul versante del personale (un modulo tipo di 8 posti letto prevede la dotazione di 12 medici e 24 infermieri nella giornata), a fronte delle 658 attive “dichiarate” dal direttore generale Luciano Flor, si apprende in serata che i ricoveri Covid sono 403 e quelli ordinari oltre duecento. Una combinazione che costringerà alla rapida conversione in intensive delle postazioni disponibili nel blocchi chirurgici, con ulteriore affanno sul piano delle risorse umane e inevitabile contrazioni delle prestazioni non urgenti. Il Piano di sanità pubblica ne prevede l’attivazione massima di 1016 ma lo stesso manager avverte che l’eventualità - estrema e, confidiamo, irreale - provocherebbe il collasso delle attività ospedaliere extra coronavirus, con conseguenze funeste.
Scenario depressivo?
Proviamo ad alleviarlo con una buona notizia: il tam tam di medici di famiglia e farmacisti segnala un crollo senza precedenti dell’influenza tradizionale, attribuito dagli igienisti all’adozione generalizzata dei dispositivi di protezione e all’accresciuto ricorso alla vaccinazione. Tant’è. Resta lo spauracchio dei contagi che potrebbe indurre il Governo a colorare di arancione il Veneto dopo l’Epifania mentre il governatore guarda con ansia crescente alla riapertura delle scuole superiori in presenza (leggi 50% di ragazzi in classe) prevista il 7 gennaio: «In queste condizioni «è un azzardo», va ripetendo, e richiede al ministero una preliminare «rivalutazione scientifica del rischio». —