Coronavirus, la compagna dell'ingegnere morto: «Si è spento in due giorni, non so dove siano le sue ceneri»
Dal Brasile Cida Rocha racconta le ultime ore di Michele Sarno: la prima febbre, lo svenimento in farmacia, dove era andato a comprare le medicine, fino al ricovero in terapia intensiva a Livorno
LIVORNO. «No, non voglio piangere assolutamente, gli ho fatto questa promessa prima che morisse». Cida Rocha ha vissuto a distanza l’epilogo dell’esistenza del suo compagno, l’ingegnere di Vicarello Michele Sarno. Era nella sua città a Vila, nella regione brasiliana di Espirito Santo. Eppure lui se ne è andato in pochi giorni, così all’improvviso, portato via dal coronavirus a 54 anni, il 18 marzo scorso. «Un uomo forte, sportivo, che non aveva accusato nessuna malattia prima. Che non ho potuto neppure salutare, abbracciare per l’ultima volta -dice - E quando potrò venire in Italia spero di trovare le sue ceneri perché ora non so dove siano». Nessuno, tra l’altro, ancora ha potuto riprendere i suoi effetti personali, nemmeno la sua famiglia che abita in Campania.
Cida Rocha, giornalista e imprenditrice, racconta dal Brasile di Michele, del suo Michele, e lo fa con parole colme di amore, quell’amore che durava da dieci anni, tra una trasvolata un’altra, dall’Italia, dove si erano conosciuti, al Brasile e viceversa. E parla sempre al presente come se lui fosse ancora accanto a lei, con quel volto dolce, sorridente e bello. «Oggi (ieri ndr) - racconta - mi sono messa sulla terrazza della nostra casa, di fronte al mare che lui amava profondamente». In sottofondo la loro musica, per una cerimonia di ricordo casalingo, sempre col sorriso come lui avrebbe voluto, a migliaia di chilometri di distanza dai resti di una esistenza spezzata da un nemico invisibile che evidentemente non risparmia neppure quelli più giovani e in salute. Tutto questo Cida lo fa con la sensazione di abbracciare ancora quel “gigante buono”, come aveva fatto l’ultima volta il 2 febbraio scorso quando era ripartita dall’Italia. «Già si cominciava a parlare di questa terribile malattia - racconta Cida Rocha - e quando sono rientrata in Brasile anche io ho fatto il tampone per sicurezza essendo passata da Fiumicino».
Poi le settimane sono trascorse tra messaggi e videochiamate nell’ordinarietà del bene. Lei con la sua azienda e un impegno nella politica della sua città. Lui a Livorno, dove era arrivato da Avellino più di venti anni fa come ufficiale dell’esercito. Nel 2002 era andato a lavorare all’azienda Abate, che lavora nel campo dell’edilizia industriale, e qui poi era divenuto direttore tecnico.
Una lontananza, la loro, che scorreva tra progetti vicini e lontani. «Voleva trasferirsi qui in Brasile, era innamorato di questi posti e qui voleva aprire una sua azienda», va avanti Cida.
Tutto questo fino al giorno del suo compleanno, il 6 marzo. «Ci siamo sentiti per telefono la mattina e abbiamo scherzato anche sul “corona” perché in portoghese, che tra l’altro lui parlava bene - spiega la donna - questa parola si adopera per una persona che ha superato i 40 anni».
La giornata è andata avanti con la festicciola nell’azienda, un momento semplice ma sentito, come era lui, «sempre riservato, attento alla sua privacy». «Quando è tornato a casa lo hanno chiamato e gli hanno detto che un suo collega era risultato positivo al test del coronavirus - racconta Cida - da lunedì è rimasto a casa e ha cominciato ad accusare qualche linea di febbre. Non stava male, però, e non era preoccupato. La temperatura non passava e allora domenica ha chiamato la guardia medica che gli ha fatto il tampone. L’esame è risultato negativo e lui è rimasto a casa comunque perché la febbre non gli passava». «Mercoledì - continua nei suoi ricordi - è andato in farmacia per acquistare la tachipirina. E qui si è svenuto. Hanno chiamato il 118 e lo hanno portato all’ospedale. Questa volta il tampone è risultato positivo e lo hanno ricoverato. Mi ha scritto che aveva una polmonite virale.
Ecco uno dei suoi ultimi messaggi: “Amore mio, la febbre non passa, ora attendo di essere ricoverato a malattie infettive. Comunque stai tranquilla. È tutto ok. Finalmente mi cureranno”. Da quel momento in poi, però, è stata una discesa ». «Io non ci volevo credere, ero convinta che avrebbe superato la malattia - spiega ancora la compagna - perchè è sempre stato un tipo atletico che faceva anche attività subacquea. Ma poi, ora dopo ora, tra un messaggio e una chiamata, mi sono dovuta arrendere al fatto che un uomo in piena salute diventasse un numero delle statistiche in tempi di coronavirus. Senza avere diritto, neppure, ad un ultimo bacio o a un ultimo abbraccio».
«Il 15, domenica scorsa - prosegue - lo hanno trasferito in terapia intensiva perchè non respirava più da sé, lo hanno intubato. Il 16 hanno cominciato a non funzionare più neppure i reni». «Mi ha scritto che era attaccato alla macchine e non poteva rispondere. Mi ha potuto mandare solo un breve messaggio. Il 17 ci hanno detto che solo un miracolo lo poteva salvare. Il 18, a mezzogiorno, ci hanno detto che si sarebbe trattato di poco tempo. E la sera se ne è andato».«Chissà - ho pensato - se il primo test fosse risultato positivo Michele si sarebbe potuto salvare. Ma non voglio giudicare nessuno, è andata così». «Ho cercato anche di venire in Italia ma non mi è stato permesso - continua- sperò di venire presto e di poter avere le sue ceneri. E di fare una cerimonia per salutarlo in modo degno come era lui, davvero un signore. Ora è un nulla e non è giusto che debba finire così».E conclude guardando le decine e decine di foto di lui che ha nella sua casa: «Spero che il suo esempio serva a far capire che questa malattia non deve essere sottovalutata».