L'urlo degli esercenti veneziani: "Siamo tutti a norma, modificate il decreto"
Serrande abbassate, ma luci accese e proprietari di presidio davanti ai loro locali: «Vogliamo la dignità di poter lavorare»
VENEZIA. Luci accese, sedie sui tavoli e gestori alla porta. È così che appariva Venezia ieri allo scoccare delle 18, quando è scattata la protesta dei proprietari di bar e ristoranti che hanno seguito il «Non ci sto» di Edoardo Milliaccio di Dodo Caffè, in Fondamenta degli Ormesini.
Il rifiuto esplicito del nuovo Dpcm si è fatto sentire attraverso un grande coro di voci obbedienti, ma arrabbiate che potrebbero comunque sfociare in una class action al Tar del Lazio, contro regole che per i gestori non hanno nessun senso, come dimostra il fiume di domande che non hanno risposta: «Perché non si è intervenuti nei mezzi pubblici?», «Che differenza c’è tra pranzare o cenare?», «Si rendono conto che dobbiamo lasciare dipendenti a casa?» e «Vogliamo lavorare e non elemosinare».
Poco prima delle 18 Fondamenta della Misericordia e degli Ormesini è quasi vuota. Ci sono alcune persone che si bevono l’ultimo aperitivo e nessun controllo delle forze dell’ordine. Milliaccio, detto Dodo, è stato il primo a dire apertamente che avrebbe tenuto simbolicamente aperto, ma in tanti lo hanno seguito: «Sono da 20 anni qui, da due ho i lavori di fronte al bar al Ponte del Ghetto, poi l’acqua alta, poi il Covid», spiega, «senza turisti abbiamo meno del 70% del fatturato, qui è tutto a norma, perché chiudere? Abbiamo il disinfettante, ci sono otto tavolini fuori».
Lo stesso racconta poco più avanti Caterina Gherardi, 53 anni e da 33 titolare dell’Osteria Al Mariner con 8 dipendenti (e 3 stagionali abituali che non hanno lavorato quest’anno): «Ci siamo perfino muniti del plexiglass tra i tavoli», dice la donna, fuori dal locale con le luci accese per protesta e un cartello con scritto che già paga il 70% di tasse.
«Io voglio lavorare, abbiamo sempre fatto tutto in sicurezza e negli ultimi mesi c’era un po’ dì lavoro, è assurdo chiudere, come se di giorno non ci fosse il virus e di sera sì». In Campo Santa Margherita e in Campo San Barnaba, la situazione non cambia. L’Orange e il Duchamp hanno le luci accese e le serrande abbassate, il locale Ai Pugni lo stesso.
Qui, mentre pulisce il bar, il titolare Marco Scarpa mostra una foto del tram, pieno zeppo di persone: «Non ci interessano i rimborsi, che li diano a chi effettivamente ha bisogno», dice. «Noi vogliamo la dignità di lavorare che significa lasciarci continuare in sicurezza, come sempre abbiamo fatto. Ci fanno chiudere alle 18 è questo inciderà dal 50% in più del fatturato».
Scarpa, come tanti altri, vede molte incongruenze nel nuovo dpcm: «Sembra che il virus esca alle 18, ma ci sono dei locali che hanno più gente di giorno. Siamo tutti preparati perché siamo noi i primi a voler tutelare i nostri clienti». I proprietari del ristorante Oniga in Campo San Barnaba, Raffaele Scarpa e Marino Oniga, hanno già dovuto mettere sei degli otto dipendenti in cassa integrazione: ora ci sono loro e due cuochi.
«Sarebbe stato meglio delegare tutto alle Regioni e ai Comuni», ancora incerti se eventualmente partecipare alla class action, «Il Comune avrebbe potuto venire, controllare di persona i nostri dispositivi di sicurezza e dirci che in questo periodo dovevamo ridurre i tavolini».
Per Valentina Elisabetta, da 23 anni alla Trattoria Do Forni e già con sei dipendenti a casa, si rischia un effetto domino: «La nostra crisi si riverserà anche sullo Stato», ha detto, «Chiediamo che lo modifichino perché le persone qui sono molto più controllate».
La delusione dei gestori è diffusa: «Abbiamo visto uno Stato che non ha saputo amministrare i soldi pubblici, ma dare incentivi per i monopattini o sperperare soldi per i banchi», afferma Massimiliano Lo Duca de El Refolo in Via Garibaldi, arrivato per solidarietà da Dodo, «Gli effetti della chiusura ci porteranno a un aumento delle tasse ed è per questo che ti verrebbe da non pagarle. Se io ti do dei soldi e tu non li sai amministrare questo è l’effetto. Noi vogliamo lavorare e speriamo che lo Stato capisca che deve modificare il decreto». —