Professione doppiatore: le mille voci di Alex Polidori
Doppiatore, attore, musicista. Alex Polidori, 24 anni, romano, ha da poco pubblicato il suo singolo Mare di plastica che, come dice il titolo, parla di ambiente e inquinamento. «Ho iniziato a pensarci con l’inizio dei Fridays For Future, mi hanno colpito, e ho approfondito l’argomento. Per prima cosa ho cercato di cambiare qualche abitudine a casa, poi ho cominciato a buttare giù i versi. Il senso della canzone è che il futuro è a rischio e che se vogliamo salvare il pianeta dobbiamo darci da fare subito, siamo già in ritardo. Il coronavirus ci ha fatto capire anche che pandemie come questa e i problemi ambientali sono legati. Senza contare che guanti e mascherine si stanno aggiungendo ai rifiuti che già producevamo prima».
Polidori è cresciuto tra musica e doppiaggio. Dice: «mio padre è un musicista, io canto da quando avevo 4 anni. Mio fratello maggiore ha iniziato a doppiare quando aveva 7 anni, io persino prima, a 4-5. Quando mia mamma accompagnava mio fratello in giro da uno studio di registrazione all’altro mi portava con loro. Ero ancora nel passeggino. E siccome chiedevo continuamente di poter provare anch’io, una volta, per gioco, me l’hanno fatto fare. Si sono resi conto che avevo già capito alcuni meccanismi. È cominciata così».
A sette anni, la prima voce protagonista. Il pesciolino Nemo del cartone animato. «Al mio nipotino di 3 anni che lo guarda gli abbiamo spiegato che la voce del pesciolino è quella dello zio quando era bambino. Non sono certo, però, che abbia capito del tutto».
I doppiatori sono molto meno conosciuti degli attori eppure un brutto doppiaggio può rovinare un film.
«È un lavoro importante e complicato ma siamo al servizio degli altri attori. E se è vero che un brutto doppiaggio rovina un film, è anche vero il contrario. Ci sono attori che grazie a un doppiaggio fatto bene funzionano meglio che nella versione originale. Ma, da qualche tempo, il pubblico conosce meglio questa professione. I giovani sul web possono trovare chi sono le varie voci dei personaggi e spesso di affezionano ai doppiatori».
Tra l’altro Netflix da un po’ di tempo ha cominciato a doppiare tutti i contenuti. C’è tanto lavoro?
«Dai sondaggi risulta che la maggior parte delle persone guarda film e serie doppiate. Il lavoro c’è, anche perché, oltre a Netflix, sono arrivate altre nuove piattaforme di streaming».
Nel mondo dello spettacolo siete anche uno dei pochi settori che ha subito meno danni dall’emergenza Covid.
«Assolutamente. Abbiamo ripreso a lavorare già dalla fine di aprile. Il lockdown è servito per mettere a punto le nuove misure di sicurezza».
Tra i tanti attori che ha doppiato ce n’è uno particolarmente difficile?
«Diciamo che ci sono quelli complicati perché non sono bravi e quelli che invece è difficile rendere per la ragione opposta. Timothée Chalamet, per esempio, è un fenomeno di bravura. Ha una nota ironica anche quando nelle scene che non sono comiche. Non è facile da rendere».
Ormai è diventato la sua «voce ufficiale». Da Chiamami col tuo nome, a Piccole donne…
«L’ho già doppiato in parecchi film. Anche di recente in The French Dispatch di Wes Anderson che deve ancora uscire».
Che mi dice di Tom Holland che lei ha doppiato in Spider-Man?
«Anche lui è bravo e complicato da rendere. Parla molto velocemente, per esempio. Una volta l’ho incontrato dal vivo. Quando si è rivolto a me con la voce di Spider-Man, mi sono venuti i brividi dall’emozione».
Come si diventa la voce di un attore famoso?
«Per Tom Holland ho fatto un provino con la produzione americana del film. Dipende. Per film importanti o personaggi principali capita di dover fare un’audizione, ma non sempre. E, a volte, decidono di cambiare anche se hai già doppiato lo stesso attore in tanti ruoli precedenti».
Doti necessarie?
«Saper recitare e avere orecchio musicale in un certo senso. Infatti, parecchi miei colleghi sono anche musicisti o cantanti. Anche perché a volte il personaggio che stai doppiando ha una scena in cui canta».
Occorre studiare dizione, immagino.
«Io non l’ho fatto perché ho iniziato da piccolo e ho imparato facendolo. Ma, sì, una buona dizione è necessaria».
Che consigli darebbe a chi vuole iniziare?
«Se è vero che è un lavoro che si tramanda di generazione in generazione, a volte organizzano anche audizioni – non adesso per via del coronavirus – e ci sono parecchi corsi di doppiaggio per imparare la tecnica. Attenzione, però, alcuni non sono attendibili».
Come si fa a capire?
«Controllate che i docenti siano doppiatori professionisti che lavorano davvero. Ci sono persone, purtroppo, che s’improvvisano e non hanno abbastanza esperienza».
Altro?
«Non è facile entrare in questo mondo, sarò sincero. Ma si tratta di una professione meritocratica. Se sei parente di qualcuno ma non sei bravo, non fai strada. Se hai talento, a prescindere dalle parentele, ce la puoi fare».
Quando guarda un film non in lingua originale si fa distrarre dalla performance dei colleghi?
«Purtroppo sì. Infatti, guardo soprattutto film italiani. Anche perché, a volte, riconosci le voci di persone che conosci benissimo. Io, poi, sono pure fidanzato con una doppiatrice, Sara Labidi, che ha dato la voce ad Arya Stark nel Trono di spade. Ma il peggio è quando sento me stesso. Spider-Man me lo sono goduto solo alla terza visione. Le prime due le ho passate ad ascoltarmi e a criticarmi».
Dove la sentiremo prossimamente?
«Sono Randall nella serie The Order su Netflix e, a settembre, uscirà la seconda stagione di The Boys, nella quale doppio A-Train, un supereroe che va velocissimo. E, a luglio, esce Onward della Disney, dove doppio il protagonista, Ian Lightfoot che, nell’originale, ha la voce di Tom Holland».