Diego Maradona: una vita in quarantena
Questo articolo è stato pubblicato sul numero speciale 20-21 di Vanity Fair diretto da Paolo Sorrentino, in edicola fino al 2 giugno.
Noi sessanta giorni, lui sessant’anni. Se si guarda indietro, Diego si accorge di essere stato sempre prigioniero. C’erano troppe porte da aprire e una sola chiave. Da ragazzo pensava bastasse. Si sentiva libero. Era solo Diego e non ancora Maradona. Sapeva giocare a calcio. Muoveva le gambe a destra e a sinistra. Teneva il pallone incollato ai piedi. Il primo glielo aveva regalato zio Cirilo a tre anni.
Lo chiamavano El Tapón, Cirilo, perché faceva il portiere, saltava tra i pali come un tappo e non aveva paura di niente. A fine partita alzava la maglietta e sventolava i lividi proprio come le ragazze che Maradona inseguiva sulle riviste da adolescente mostravano le tette. A un tratto uscirono dai giornali e lo andarono a cercare. Bello non era e non sarebbe mai stato, ma la gente cantava il suo nome. Batteva i piedi all’unisono «Maradò, Maradò» e sembrava che la terra stesse per sprofondare.
In quelle giornate, nell’unico carcere in cui l’ora d’aria non gli pesasse, vedeva orizzonti sterminati dove gli altri incontravano solo mura. Il campo era la Pampa. Cadeva da cavallo, prendeva colpi e si rialzava. Le tribune dello stadio somigliavano alle facciate dei palazzi lussuosi. Quelle di casa sua erano di lamiera e cartone. Suo padre si alzava all’alba e rincasava che era notte. Andava verso il fiume nero, il Riachuelo, e prendeva posto in fabbrica. Macinava le ossa delle vacche, alzava polvere e l’olezzo dei suoi vestiti lo precedeva. Diego lo aiutò. E aiutò anche nonna Salvadora e mamma Tota. Che amava Evita e ogni tanto le rivolgeva una preghiera.
Tota gli aveva insegnato a farsi il segno sacro e a Cornejo, l’allenatore delle cebollitas, le giovanili dell’Argentinos Juniors, la prima squadra di Diego, che le aveva predetto un grande futuro per suo figlio, aveva risposto soltanto: «Se dio vorrà, accadrà». In croce più tardi finì Diego stesso. Hanno detto che è stato inchiodato dalle origini, dal talento e dal destino. Tutte cazzate. Se ha allargato le braccia e si è arreso è accaduto perché i suoi sogni erano troppo grandi. Li toccava, li raggiungeva e aveva paura glieli portassero via un minuto dopo. Li divorava come l’animale in gabbia sbrana le sue razioni. Maradona ha sempre avuto dei problemi con la parola moderazione. I maestri di morale alzavano il ditino. Gli altri lo giudicavano senza sapere niente. «Ti devi controllare, Diego», gli dicevano quelli che giuravano di volergli bene. Ma loro, Villa Fiorito non l’avevano mai vista. E del pozzo nero con gli scarichi delle baracche traboccante di merda e di liquami da cui venne tirato fuori per miracolo a due anni da zio Cirilo, non avevano mai sentito neanche l’odore.
È sempre stato sotto pressione, Diego Armando Maradona. Il successo, la fama, le aspettative. A 15 anni manteneva la famiglia. A 20 reclamizzava compagnie aeree, spazzolini da denti, prodotti per la scuola e bambolotti. Lo facevano sentire come dio, ma il burattino senza fili, il pupazzo, era lui. Ha ricevuto tanto, ma il resto gliel’hanno rubato. Ora che il mondo è in lockdown o come dicono dalla tv argentina a tutto volume è in cierre de emergencia, adesso che della porta di casa ha la chiave ma Diego è uno tra quattro miliardi e non può più uscire, in questo momento in cui ogni passo tra la poltrona e il frigorifero gli pesa, alzarsi è faticoso e non scivola più tra i vicoli per recuperare la stagnola dei pacchetti di sigarette e rivenderla come da bambino, Diego sa che se è andato tutto in fumo non è stato soltanto per colpa sua. Sarebbe servita più pietà e meno indulgenza. Dov’erano i cattivi, allora? Dov’erano i giusti? Dove i severi? Diego è stato sempre di proprietà di qualcun altro.
Incatenato dai tifosi, dalla patria, dai soldati, dalla bandiera, dai contratti, dai viaggi, dalle amicizie pericolose, dai figli di puttana, dal suo corpo. Non poteva camminare per strada. Non poteva fermarsi a un semaforo. Non poteva fare un bagno al mare. Sempre circondato. In battaglia. I microfoni. Le invenzioni. Le bugie. Le sue e quelle degli altri. «Diego una foto». «Diego un autografo». «Diego una maglietta». Vendevano le malattie dei figli, agitavano il ricatto sentimentale, lo facevano sentire in colpa. A Tokyo volevano ciocche di capelli. A Barcellona che dimenticasse gli infortuni a colpi di iniezioni.
A Napoli la sua vita. Ma la sua vita non c’era più. Viveva in perenne confinamento. Con il filo spinato della ringhiera bianca di un appartamento a Posillipo, in una via intitolata a un giurista, in un lembo di terra in cui per Diego l’unica legge era restare isolato. Lui alla finestra, il pellegrinaggio mattutino sotto casa e come unica via di fuga la portiera di una macchina, il rumore del motore, il percorso da casa a Soccavo, la sessione di allenamento. Quando usciva di sera si perdeva. Non era uno smarrimento felice. Non erano sinceri i sorrisi. Tra i bagni e le piste da ballo spirava un’aria da festa lugubre. Era assalito dai proci, ma chissà da quanto non era più Ulisse. Era solo un involucro. Un uovo di Pasqua senza sorpresa. Si dedicò ai vizi con una certa grazia. Fece un figlio, quasi per caso. Si sdoppiò fino a non ritrovarsi più. Voleva respirare e non respirava. Voleva evadere, ma i suoi secondini non glielo permettevano. Voleva essere Diego ed era diventato soltanto Maradona. Fernando Signorini, il suo preparatore atletico, un uomo della larga corte che lo cingeva d’assedio, aveva una teoria. Sosteneva che c’era Diego e che poi esistesse Maradona, un personaggio che Diego era stato costretto a inventare per soddisfare gli sfruttamenti a largo spettro.
Maradona era diventato un fantasma, ma non poteva permettersi debolezze. Era solo un uomo. Era imperfetto. E le debolezze erano le sue migliori amiche. Fernando gli disse che con Diego sarebbe andato in capo al mondo, ma che con Maradona non avrebbe preso neanche un caffè. Lui rispose che capiva, ma che se non fosse stato per Maradona sarebbe stato ancora a Villa Fiorito a desiderare Coca-Cola e biscotti come un qualunque ragazzino fortunato della Recoleta. Era tutte e due le cose, Maradona, ma Diego non riconosceva più il suo doppio e gli capitava sempre più spesso di parlare in terza persona. In breve, di persona, non ce ne fu più neanche una. Era altro da sé. Napoli tollerava tutto e fingeva di non accorgersi di niente. Vinse, perse e poi finì tutto. Sbiadirono gli affreschi dei murales e cambiò anche il colore del cielo.
Lo fischiarono persino al San Paolo. Sentì soffiare l’odio in una notte d’estate a Roma. Era il bersaglio. Il nemico pubblico. Il topo da intrappolare. Tra una striscia di cocaina e quella di un aereo si imbarcò nuovamente nella stiva. A Buenos Aires atterrò in una cella persino peggiore di tutte quelle che aveva frequentato in precedenza.
Mise le impronte, come una bestia, su un registro di polizia. Aveva gli occhi aperti, ma sospettava di essere già morto. Provò a resuscitare e in un pomeriggio caldissimo un’infermiera americana lo accompagnò definitivamente fuori scena. Quello che è accaduto dopo si chiama invecchiare. Diego si è sentito solo, ma a essere onesti non più di quanto non lo fosse stato prima. È ingrassato e adesso se cammina in un campo ha le sembianze dei suoi primi allenatori. Arrigo Sacchi giurava che giocare contro di lui era co- me giocare contro il tempo.
Era come sapere che prima o poi avrebbe segnato o fatto segnare. Ora DAM non fa più gol e neanche li riguarda. Fanno male come certi raggi di sole. Provi ad attraversarli, ma ti accecano. E lui vuole ancora sperare. Vedere. Sapere che domani potrà ancora aprire gli occhi. È trascorso molto tempo da quando aveva la zazzera nera, ma in fondo è sempre il figlio di due contadini di Esquina e probabilmente ne è orgoglioso. È invecchiato. Dicono che ai vecchi faccia visita la saggezza, ma è una mentira, una balla, una menzogna anche quella. Al limite si riscoprono più attenti. Più prevedibili. Non fanno serpentine né scommesse, i vecchi. Non migliorano. Non diventano più buoni. Non cambiano. Aspettano domani. E in prigione, protetti, non stanno poi così male.