«Nascerai, e nel tuo primo pianto finirà tutto questo silenzio»
Ti fai sentire soprattutto la sera, le giostre di quand’ero bambina nella pancia. Il sole, dalla finestra di casa, di solito ha appena esaurito i suoi ultimi raggi su Milano, i più tiepidi, contro l’azzurra UniCredit Tower: è diventata così arancione, e rosa, poi petrolio. E mentre ti accarezzo nel buio, per vedere se rispondi, mi chiedo quanto ti arrivi nel tuo silenzio lì dentro di questo silenzio qui fuori.
Doveva essere la primavera tenue in cui mi sognavo di portarti a fare una passeggiata in spiaggia, un tuffo in acque ancora cristalline, e invece non abbiamo fatto in tempo. Perché è arrivato un virus invisibile, che al microscopio sembra un fiore rosso, verde, corallo, magnifico, di quelli che stanno sotto ai mari, nelle profondità blu più segrete del mondo, ma che in verità, nell’uomo, toglie il respiro, attacca gli organi vitali, fa morire in ospedali che soffocano anche loro.
Così, è ormai oltre un mese che siamo tutti finiti in qualcosa che assomiglia a un sospeso a tratti da non crederci, in cui bisogna stare «locked down», «chiusi»: «chiusi» come i cinema, i teatri, i ristoranti, i giardini, i bar, gli uffici, i mercati, gli stabilimenti balneari. «Chiusi» come i corpi, gli abbracci che non possiamo più darci. Riguarda l’intero pianeta.
Si può uscire solo per la spesa, la farmacia. Con mascherine che fino a ieri avevamo visto solo addosso a medici e infermieri che adesso hanno i volti segnati, da tanto non si fermano. Noi, a differenza degli altri, siamo andate anche a fare le analisi, un’ecografia in cui ti porti l’indice alla fronte, e già sembri pensare. Il resto, ogni atto preparatorio alla tua nascita, ce l’hanno annullato: le visite, i corsi pre-parto.
La Tv, con cadenza quotidiana, dà il bollettino di quanti, attaccati, hanno ceduto. Nelle terapie intensive, nel proprio letto, nelle residenze per anziani. Ogni tanto, spesso, passa un’ambulanza, le sirene rompono una quiete che è solo assenza di decibel, e respiro corto all’improvviso. Ne conto almeno dieci, quanti sono stati i tuoi movimenti.
Tutti, affacciati ai nostri balconi, in un’aria quieta, aspettiamo come un piccolo miracolo che riavvolga il nastro e ci faccia tornare indietro a quando potevamo andarci a mangiare una pizza, il sabato sera, o svegliarci una domenica, guardarci negli occhi con il caffè ancora fumante e dirci: «Portami al mare», prendere un treno per Roma, dove scoprirai avere un grande pezzo di te, o per una trasferta di lavoro verso una destinazione qualunque. Avere fretta, che stiamo facendo tardi all’aeroporto per volare a Parigi per quell’intervista, in America o quest’anno in Grecia, dai, per le vacanze.
Ma questo piccolo miracolo è difficile. E così, nel frattempo, ogni tanto suona il campanello, e dallo spioncino un uomo deposita le prime cure che stiamo ordinando online, per te. C’è un fasciatoio bianco con su ramoscelli e foglie disegnati, degli asciugamani morbidi color menta. Son già sul comò che era di nonna, insieme al primo coniglietto doudou di Marianna. La culla sta viaggiando da Verona: ce la sta mandando Rita. La navicella deve arrivare dalla Francia, e pare ci vorrà ancora un po’. Ho aperto la porta, ieri, e trovato un pacco con una lettera scritta a mano da Giulia, la mia compagna di banco al liceo. Una valigia di vestitini pastello e corredini di lino che la mia, di madre, ha recuperato dopo 35 anni. Li ha lavati a lungo, e profumano di fresco, pulito e acquerelli persino nelle videochiamate in cui papà, dietro, scuote la testa prendendola un po’ in giro, e mio fratello s’intenerisce.
Con una probabilità che ormai è quasi certezza, la situazione di emergenza farà sì che loro no, non potranno vederti subito, quando nascerai, ed è triste perché ha ragione Francesca: «Siamo mamme a cui manca tantissimo la mamma, in questo momento». Ma non perdiamoci: imparerai presto l’immenso potere dello stare pienamente in un luogo e del sapersi toccare anche da lontani, chiudendo gli occhi.
Gli amici mi scrivono. Anche di darti un nome legato a questo tratto. Futura, come la canzone di Dalla, quella che fa «Aspettiamo senza avere paura, domani». Ma se proprio proprio devo dirti, di lui avevo in testa Anna, per quell’«Anna come sono tante, Anna permalosa» e come segue. O «Anna verrà, col suo modo di guardarci dentro», di Pino Daniele. Saresti potuta essere anche Caterina, per colpa di De Gregori. E invece (quasi alla fine), mentre ancora ti si chiama «la creatura», sarai (quasi senza forse) Sveva. Sveva perché «luminoso, dritto, e sa di personalità», sorride Erika, che in una nuova versione, pandemica, di sé, ha coinvolto anche i suoi, distanti: «Pigiamini di quando ero neonata ne abbiamo?». A me Sveva fa venire in mente il riverbero della luce che creava tantissimi infiniti luccichii sul celeste del Mar del Nord, e tu eri solo un puntino di quelli che si è attaccato in me, in quel viaggio da Copenaghen a Malmö. E una frase che mi disse Gino Paoli a Genova, prendendosi una pausa lunga com’è questa in cui siamo, dopo che gli chiesi da dove venisse, secondo lui, un desiderio, una fantasia, un verso, un’intuizione istintiva di futuro, qual è la creazione: «Non saprei», rispose, «ma hai presente il fastidio che fa la madreperla? È qualcosa di molto simile».
Ecco. Vieni anche tu da un pulviscolo chiaro inafferrabile ed evanescente, come quelli che filtravano dalle veneziane e rimanevano sospesi nell’aria, durante i primi pomeriggi dell’infanzia. Sei figlia di un lampo di faro, di un arco di Ennio Morricone, di un’eco di conchiglia. Di terrazze tra le cupole di Roma e di una Bohème alle Terme di Caracalla. Di una corsa al tramonto verso il bagnasciuga, tra le ordinate tende della Versilia, e di una sveglia presto, a Trastevere. Di fragilità e ritorni. Degli alberi di Parco Sempione e di Sophie, che in un orfanotrofio sperduto, in Kenya, è voluta venire in braccio, si è aggrappata al collo e su uno sterrato con una manina tra i miei ricci e l’altra puntata al cielo indicava «uma», «la luna». Sei figlia di un rifugio delle sirene e di una mongolfiera. Di una ninna nanna inventata. Di un’analista, anche, e di una ginecologa. Di una cartomante, di un giro di tarocchi come uno scherzo. Delle passeggiate in pausa pranzo con Paola, Valeria e Veronica. Di un femminile plurale che contiene la notte, l’avventura, la tensione, la nostalgia, l’estasi, la paura. La libertà.
Sei figlia di questo istante di pace, in cui – gambe stese e piedi nudi sulla ringhiera – con l’immaginazione sono dove avrei voluto, e mi sembra di avvertire i due battiti che siamo, quell’«ogni tanto fai spavento» di Gianna Nannini, quel «vorrei che piccola così bastasse sempre al cuore tuo la vita che riscalda una mattina d’estate», di Patty Pravo.
«Tutto passerà», mi dico, e ci trovo conforto. E così conoscerai il glicine. Il pesco e la lavanda che qui si stanno preparando a te e nonostante tutto stanno fiorendo. Come risaccano le onde, quando montano, e si avvicinano a riva. Il rumore che fanno. Il loro bianco sfrontato nel vento impetuoso d’inizio settembre. Il fuoco e la neve che verranno, d’inverno.
Saremo piene di prime volte. E lo ritroveremo insieme, piano. Il sapore buono della vita.