Daniela Scotto di Fasano e la psicoterapia ai tempi del coronavirus
Una vita come un romanzo. E un presente tanto denso, vitale e necessario che il futuro fatica a starle appresso. Daniela Scotto di Fasano (cognome procidano e per nulla nobiliare, tiene a precisare) è nata e cresciuta in Africa, tra Asmara e Mogadiscio, con un padre nato a New York ma vissuto a Napoli e una mamma di origini greche.
Si è laureata in Filosofia a Pavia, ha militato in Lotta Continua, si è sposata, ha insegnato Lettere (anche nello storico progetto delle 150 ore e ai detenuti). Giovane adulta, ha deciso di affrontare il percorso dell’analisi, da cui è uscita con una separazione (dal marito) e un nuovo progetto di vita: quello di lavorare come psicoterapeuta.
Quarant’anni dopo, Daniela Scotto di Fasano è una nota psicologa e psicanalista, membro della Società Psicoanalitica Italiana e dell’International Psychoanalytic Association, con pubblicazioni sulle più importanti riviste del settore. Si occupa soprattutto di donne e di bambini. Con il secondo marito, Marco Francesconi, a sua volta psicoanalista e docente di Psicologia Dinamica all’Università di Pavia, ha ideato il Festival della Costa Etrusca «Pensare serve ancora?».
Ha una faccia aperta, due occhi vivissimi, la battuta pronta, mai banale. È rigorosa eppure positiva, come tante intellettuali capaci di costruirsi sul campo, sperimentando e lottando sempre in prima linea, mai sottovalutando la sensibilità e le sofferenze degli altri.
Com’è il tempo della pandemia?
«Complesso, difficile. È importante comprendere il più presto possibile le conseguenze. Nei primi giorni la reazione è stata quella del panico, poi sono subentrati rabbia e depressione per l’incertezza. La convivenza forzata fa esplodere le tensioni. Come associazione, abbiamo attivato un supporto on line: una scelta contingente, non per guadagnare nuovi pazienti».
Le prime a farne le spese sono le donne.
«La violenza domestica è in aumento. Impossibile che non accadesse, ahimè: infatti Isa Maggi, l’anima degli Stati Generali delle Donne, ha istituito uno sportello virtuale, “Io non resto a casa”, al quale le donne possono rivolgersi per trovare supporto legale e psicologico in questi giorni così faticosi. Un’emergenza che abbiamo messo per iscritto in una lettera aperta al Presidente del Consiglio e ai Ministri di Interni e Pari Opportunità (la trovate su www.womenews.net, ndr)».
Abbiamo scoperto il concetto di vulnerabilità.
«Un sentimento che la società edonistica tende a cancellare, facendoti sentire onnipotente ed eterno. Ma la vulnerabilità fa parte dell’essere vivi, se è vero che nascendo diventiamo debitori di una morte, la nostra. Non considero certo la pandemia un’opportunità, ma occasione sì. Avere il senso del limite significa prendere atto della propria vulnerabilità, farci pace come Doris Lessing in Se gioventù sapesse. Ma anche andare oltre, come la mamma ottantatreenne di un’amica carissima, che fa ginnastica in casa e l’altro giorno si lamentava con la figlia di aver finito l’ombretto».
Gli anziani sono una fascia particolarmente fragile.
«A maggior ragione nella società della rottamazione… Non possono uscire, quando avrebbero bisogno di ossigenarsi, di camminare. E nemmeno possono andare a messa o al cimitero. Non sono un medico, ma è accertato che più si è frustrati e depressi e più si è sensibili al contagio».
E la paura?
«La paura è utile nello sviluppo del bambino. Imparare che il fuoco brucia è essenziale per poterlo usare! La paura insegna ad affrontare il rischio, a riconoscere quello che è giusto temere, e di conseguenza a cercare di proteggercene per quello che umanamente possiamo fare. Vedere le città svuotate, le restrizioni della vita collettiva, la preoccupazione per il lavoro genera paura… Però la paura non è solo dell’altro ma anche dell’altro noi, i nostri residui inconsci. Il perturbante di cui ha scritto Freud».
C’è chi la paura la sfida.
«Si tratta di un vero e proprio rifiuto: non è vero che questa cosa mi può uccidere. Si ricorre al diniego, che può diventare maniacale, come il video in cui un tizio lecca l’asse del water per dimostrare di essere invulnerabile».
Come funziona la pratica psicanalitica in questo periodo?
«I pazienti non saltano le sedute. I miei vengono tutti regolarmente, ma in modalità streaming, un’emergenza che stiamo sperimentando sul campo. All’inizio è stato molto complicato, perché siamo impotenti e spaventati anche noi. Mettere le distanze è sconvolgente, rischi che passi il messaggio: la mia analista non vuole essere infettata da me. In realtà noi stessi siamo fonte di pericolo e la protezione è reciproca. Se tossisci hai paura di far paura».
Siete dei pionieri in materia.
«Non del tutto. Nel tempo, ho avuto un paio di pazienti che per motivi diversi non potevano più raggiungere fisicamente lo studio e abbiamo continuato l’analisi a distanza. Il primo dato della pratica virtuale è che aumentano i sogni. Pazienti che tra una seduta e l’altra sul lettino non sognavano e adesso sì, come se la non presenza fosse un lasciapassare. Una paziente mi ha offerto una riflessione interessante: se sono sul lettino la sua presenza, dottoressa, è reale, non la posso spegnere, devo in qualche modo interagire. E invece così posso distaccarmi. È un’ipotesi su cui dovremo tornarci tutti sopra».
Una preoccupazione non ancora affrontata?
«Penso all’impossibilità di assistere i familiari, gli amici, alla proibizione dei funerali. Non poter elaborare il lutto – l’odio per chi ci ha lasciato, il saluto, la condivisione del dolore – ci peserà moltissimo. Aggiungiamo anche il senso di colpa e il dolore del non accompagnamento, pur se limitato dall’impossibilità di esserci. Tra la scoperta della vulnerabilità e quella dell’impotenza, dal punto di vista psicanalitico sarà un lavoro enorme».
Bisognerà cominciare a organizzare un pensiero positivo.
«Occorre prendere le misure dei fatti per fare la tara alle paure, monitorare le proprie risorse di resilienza, perdonarsi di non poter assistere i propri cari. Dobbiamo attivare il senso della comunitas, che non è carità pelosa, ma presa di coscienza: da soli non ce la possiamo fare. Mi vengono in mente i panieri di cibo lasciati a disposizione di chi ne ha bisogno, la spesa portata a casa di chi non si può muovere».
Tutti più buoni?
«Macché. Mi piacerebbe sapere quanti di quelli che indossano la mascherina lo fanno per proteggere gli altri da se stessi in quanto possibili fonte di contagio (che è l’unica funzione delle mascherine in dotazione alle persone comuni) e non per il terrore di essere contagiati… Mi verrebbe da dire: homo homini virus. Non mi piacciono le illusioni consolatorie. Ma guai se non facciamo quello che Freud definiva un esame di realtà, mettendo i piedi ben per terra, smettendo di sfruttare gli altri e il mondo, perché quel che fai ti torna. Credo che non saremo così cretini da non capire. Ne verremo fuori: malconci, senza alcun dubbio, feriti, anche, ma coltivando ragionevoli speranze».
Un salto di consapevolezza?
«Faccio appello all’insegnamento di Eraclito: Se non speri l’insperabile, non lo scoprirai».
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