Fabio Paroni: «Le risate ci salveranno (anche dalla precarietà)»
Una risata ci salverà. O, perlomeno, è quello che pensa Fabio Paroni, che combatte da sempre lo stereotipo che vede l’attore comico come un teatrante di serie B, qualcuno che non merita la stessa considerazione di chi si impegna in un ruolo drammatico. «Penso che la tv, ma anche i molti sketch che si trovano su Youtube, ci convincano che siamo tutti bravi a far ridere. Invece non è così, non è una cosa che potrebbe fare chiunque» racconta Fabio, 42 anni, reduce dal successo di Grasse risate, lacrime magre, lo spettacolo che ha messo in scena insieme al collega Paolo Faroni al Binario 7 di Milano e che ha registrato il tutto esaurito. «Lo abbiamo scritto per abbattere molti stereotipi legati alla figura dell’attore di teatro» insiste Fabio con un po’ di timidezza: questa è la sua prima intervista e il nervosismo delle prime battute cede pian piano il posto alla rilassatezza di chi non vede l’ora di raccontarsi.
Da dove vi è venuta l’idea?
«Nasce dal fatto che molto spesso io e Paolo veniamo confusi per via dei nostri cognomi, Faroni e Paroni: a me arrivano spesso i suoi provini e a lui arrivano i miei. Partendo da questo presupposto abbiamo deciso di indagare i meccanismi che si nascondono dietro al teatro, le sue zone oscure. Volevamo che la gente non vedesse più l’attore come la persona che non ha i piedi per terra».
E come è andata?
«Benissimo. All’inizio, quando presentavamo il progetto, ci dicevano che lo spettacolo lo avrebbero capito solo gli addetti ai lavori e invece, impegnandoci a tenere il campo della scrittura il più comprensibile possibile, ci siamo accorti che a divertirsi di più sono soprattutto tutti coloro che non conoscono questo mondo. Riuscire a far ridere la signora impellicciata e il contadino è stata una bella soddisfazione».
Qualche soddisfazione se l’è presa anche in Rete collaborando insieme al Terzo Segreto di Satira. Come si è trovato?
«Quando si lavora per un video il clima in genere è molto teso perché il regista deve gestire molte maestranze e c’è il rischio di rifare una scena perché la luce non era buona e qualcuno si è scordato le battute. Con loro, invece, abbiamo subito instaurato un rapporto famigliare: ascoltano le proposte, sono pronti a cambiare il copione all’ultimo se vedono che la cosa funziona. Arriva molta freschezza».
Quando ha deciso che sarebbe diventato un attore?
«A 14 anni. Frequentavo l’Itsos, un istituto tecnico dove si studia anche cinema e fotografia, e quando mi sono iscritto a un corso pomeridiano di recitazione è scattato l’amore. Quattro anni dopo ho iniziato a collaborare con il Teatro Libero in Porta Genova e Corrado D’Elia mi ha introdotto nel teatro professionale vero e proprio».
Mai avuto un piano B?
«Per fortuna e purtroppo no. Di giorno studiavo alla Scuola del Fumetto e la sera mi esercitavo a teatro: questo doppio impegno mi ha permesso di insegnare entrambe le materie, di sbarcare il lunario».
Da bambino com’era?
«Timido e introverso, ma anche molto creativo. A scuola ero il classico sfigatello che avrebbe potuto benissimo prenderle dai bulli, ma che si salvava grazie alla simpatia. Ero uno di quelli che aveva sempre la battuta pronta: il mio lato creativo mi ha sempre salvato la vita».
Immagino che, tra il riso e il pianto, nella vita lei abbia più riso.
«Ho superato le difficoltà quando sono riuscito a ironizzare su quei momenti: se riesco a ridere su qualcosa vuol dire che in qualche maniera l’ho superata e sono riuscito a prenderne le distanze».
È una regola che applica anche per i ruoli drammatici?
«Non mi capita da tantissimo di interpretare un ruolo drammatico, ma è uno dei miei desideri per il futuro. Penso che, anche lì, dovrei cercare di non farmi prendere troppo dal personaggio e di mantenere la giusta distanza, altrimenti sarebbe lacerante. Mi piacerebbe, per esempio, un ruolo alla Truman Show, con il riso e il dramma che si mischiano in continuazione. In generale sono affascinato dai futuri distopici, dal what/if, quelle atmosfere lì».
La tv come la vede?
«Subito dopo Grasse risate ho fatto uno spettacolo chiamato Seriality in cui analizzavamo il mondo delle serie tv in una chiave diversa: ci immaginavamo questi prodotti girati in Italia che cercavano di essere fighi come in America, ma senza quei budget milionari. Tipo The Walking Dead ambientato in Brianza…».
Reciterebbe in The Walking Dead?
«Più in un episodio di Black Mirror: mi piace una linea che va e a un certo punto curva dall’altra parte».
E al cinema con chi le piacerebbe lavorare?
«Ce ne sono tanti. Woody Allen, Quentin Tarantino, Tim Burton, però quando aveva vent’anni, Carlo Verdone, però quando era giovane. Ma anche Wes Anderson e Taika Waititi».
Progetti imminenti?
«Il 20 febbraio sono in scena a Milano con Di Fabio in frasca, un testo per metà mio e per metà di Greta Cappelletti. È una specie di sessione di autoanalisi lunga un’ora in cui sviscero tutte le mie paturnie e le mie ansie, ma è uno spettacolo strano. Ogni tanto vedo qualche faccia perplessa tra il pubblico».
Perché?
«Perché a un certo punto fingo di essere mia madre che si arrabbia con me perché non mi copro abbastanza quando esco e le faccio dire frasi terribili tipo “ti odio”, “ti ho sempre odiato” e “avrei voluto darti un fratello solo per farti vedere che amavo più lui che te”. È un’ironia che va presa sul piano del surreale, ma qualcuno rimane comunque spiazzato perché, nel bene e nel male, vai sempre a toccare certi tasti».
La sua ansia più grande?
«Restare senza lavoro. Il mese di settembre è quello più terribile perché passi tutto il tempo a telefonare e a riallacciare tutti i rapporti che hai stretto l’anno precedente senza avere la certezza che ti richiameranno. È un mese lungo come la morte ma poi, magicamente e toccando ferro, sembra che tutto s’incastri».
Sogna la stabilità solo nel lavoro o anche nella vita privata?
«Quella l’ho risolta perché il 4 settembre dell’anno prossimo mi sposo. È anche lei un’attrice, siamo due precari coraggiosi. A settembre siamo tutti e due attaccati al telefono che ci guardiamo spaventatissimi. Inutile dirle che l’arma dell’ironia è a seimila: senza l’ironia non c’è niente».
(Foto in apertura di Dario De Falco)