Coronavirus, adesso che «gli altri siamo noi»
Vietato l’ingresso agli italiani. Sembra di tornare indietro ai tempi bui della seconda guerra mondiale, di quegli anni in cui gli italiani non erano nemmeno considerati bianchi. E invece accade (in parte in maniera legittima) oggi. In seguito all’arrivo del coronavirus in Italia, al nostro Paese sono state imposte diverse restrizioni. Dall’interno e dall’esterno.
Sono dodici i Paesi che vietano del tutto l’ingresso agli italiani e a chi sia stato in Italia negli ultimi quattordici giorni: Israele, Maldive, Giordania, Arabia Saudita, Bahrein, El Salvador, Mauritius, Turkmenistan, Iraq, Vietnam, Capo Verde, Kuwait e Seychelles. La Romania mette in quarantena chi arriva da Lombardia e Veneto, Malta e Islanda chiedono invece la quarantena volontaria per chi arriva dalle regioni italiane in cui è stato rilevato il coronavirus.
E ancora, controlli sanitari a bordo dei voli per tutti i cittadini italiani in viaggio verso Brasile, Cile, Colombia, Cuba, Ecuador, Grecia, Cipro, Libano, Croazia e Lituania. La Francia sconsiglia vivamente ai suoi concittadini di muoversi verso l’Italia del Nord, così come anche Spagna, Grecia, Turchia, Russia e Croazia. Infine gli Usa, hanno inserito il nostro Paese nella fascia due dell’allerta sanitario ma Trump si è detto pronto a bloccare i voli. Insomma, un po’ dappertutto il mondo sta mettendo in quarantena l’Italia e gli italiani.
E noi, come ci sentiamo? Ne abbiamo parlato con la Prof.ssa Emiliana De Blasio, sociologa della comunicazione presso l’università Luiss.
Come stiamo gestendo quest’isolamento forzato?
«Tutto è mutato in un tempo molto rapido. Quella di oggi è per noi una situazione del tutto nuova, siamo abituati ad essere mobili, dentro e fuori dall’Italia. Se tradizionalmente cambiamo casa molto poco frequentemente, almeno secondo le statistiche nazionali, siamo però un popolo che si muove tanto e questa è una situazione del tutto nuova. La prima conseguenza è un piccolo shock».
Di che tipo?
«Io vedo un piccolo shock individuale nel fatto che in qualche modo si ritorna ad una vita che non conoscevamo più, che è quella fatta delle passeggiate fuori casa, del frequentare gli amici più ristretti, porre attenzione nel momento in cui si va in un luogo pubblico. Questo per noi italiani è tutto nuovo. Siamo molto molto abituati ad una vita relazionale e sociale attiva, in questo senso, tagliarci fuori da tutto questo comporta uno shock».
E le reazioni quali sono?
«Quello che ho notato per esempio sui social è che questo shock si traduce anche in rabbia, la rabbia che viene provata dagli stessi concittadini italiani nei confronti di altri concittadini italiani che per paura probabilmente si sono mossi dalla zona d’isolamento. C’è un doppio livello di paura, la prima è quella che ti fa muovere dal luogo nel quale sei coattamente costretto, per misure di sicurezza. Questa paura dipende, purtroppo, dalla poca fiducia nelle istituzioni. La seconda è l’odio per chi contravviene a questo tipo di decisioni, in quanto vieni qui e infetti me. È una percezione molto nuova in Italia, io l’ho vista provare sempre verso l’altro».
Adesso, possiamo dirlo, gli altri siamo noi.
«Sì, il terzo livello di analisi è che mi sembra che ci stiamo rendendo conto di cosa voglia dire essere gli altri. Noi finora non abbiamo molto ragionato su cosa volesse dire essere altro di noi, essere extraeuropei, avere un altro colore di pelle, ma questo non accade solo in Italia. Il problema è che siamo altri per paesi che sentivamo estremamente contigui».
Come la Francia, per esempio.
«Nel momento in cui Marine Le Pen chiede più volte al presidente Macron di chiudere i rapporti con l’Italia ti rendi conto che non c’è un’alleanza trasversale, anche tra i partiti populisti in Europa e che infine questo tipo di alleanza non vale niente nei confronti di un provvedimento che riguarda qualcosa di ancora più intimo, rispetto al nazionalismo, che è lo stato di salute. Quindi questo ci tocca molto da vicino, perché di fatto può colpire ognuno di noi».
Cosa possiamo imparare?
«Spero che questo sia un momento in cui noi riusciamo a riflettere su cosa vuol dire essere gli altri. Possiamo recuperare un po’ di empatia e di solidarietà che era alla base del nostro collante sociale, magari ci ricordiamo anche cosa vuol dire essere italiani, noi di crisi ne abbiamo superate veramente tante, ne abbiamo dato prova. Mi dispiace che non riusciamo a trasmettere che siamo cresciuti, è come se i media siano rimasti a raccontare uno stereotipo unico di noi».
La narrazione mediatica dove ha sbagliato?
«Questa psicosi che spero finisca presto è legata sicuramente anche molto al modo in cui noi ci siamo rappresentati attraverso i media. In un secondo momento, dovremmo capire che cos’è che non è andato, abbiamo creato uno stereotipo di noi stessi davanti a una situazione di crisi. Se non ci fossimo rappresentati così probabilmente anche gli altri Paesi sarebbero stati più rassicurati nei nostri confronti».
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