Luca, l’uomo che «crea» le star di Youtube
«Ecco il mio biglietto da visita. Mi scriva, niente telefonate». Il biglietto, porto a fine intervista, contiene solo una mail e il nome del suo proprietario: «Luca Casadei, Web Star Channel». L’uomo che fa da produttore alle maggiori star del web italiano – tra cui Favij, i Mates, Giulia Penna e LaSabri – e che ogni giorno si interfaccia indirettamente con 25 milioni di iscritti su Youtube, 15 milioni di follower su Instagram, 12 milioni su Tiktok e 3 su Facebook, quell’uomo là non usa uno smartphone da almeno tre anni.
L’ha abbandonato un pomeriggio di mezza estate, assieme ad altri pesi morti della sua vita. «Ero stressato, schiavo di un lavoro che facevo da 24 anni e alle prese con dei ragazzini arroganti che avevamo in scuderia. Il 18 luglio 2016 spensi il telefono, lo chiusi nel cassetto della scrivania, andai dai miei soci e dissi: “Me ne vado in vacanza, non so quando torno. Intanto trovate una soluzione, perché io voglio mollare l’azienda”».
Che cosa fece?
«Viaggiai, Barcellona, Londra e altre cinque città. Cercavo me stesso, e un senso a quest’avventura. Tornai a settembre, dopo due mesi senza essermi mai fatto sentire. Riaccesi il cellulare e vidi 2.283 mail arretrate: lo buttai nella pattumiera senza leggerne neanche una».
Il grande lusso.
«Oggi nessuno sa dove sono, nessuno mi manda vocali. Possiedo soltanto un Nokia 3330 da 20 euro, senza connessione e con un numero noto solo ai miei familiari per le emergenze».
Però è rimasto in azienda.
«Sì, ma cambiandola. Rescissi immediatamente i contratti con 17 creators».
Perché?
«Il nostro lavoro non è tanto quello di acquisire talenti, ma di lasciare a casa quelli che secondo noi non hanno il carattere per durare».
Metafora della vita. Faccia un esempio.
«Greta Menchi. Una vera star, in positivo e negativo. Aveva 19 anni, e un fuoco dentro, che però rischiava di bruciarla. Col tempo abbiamo ritenuto il suo carattere incompatibile per lavorare con noi. Ci procurava una quantità di problemi pari a quelli che avevamo con le star con una carriera ventennale. Abbiamo scelto di fare un passo indietro e di separarci con le carte bollate».
Ha funzionato tagliare 17 contratti?
«Sì, nel giro di un anno il fatturato è raddoppiato, raggiungendo 6 milioni di euro nel 2018.
La storia che porta a quel 18 luglio 2016, alla morte di un cellulare e alla rinascita di una delle società leader in Italia per la gestione delle star del terzo millennio (Youtuber principalmente) intreccia trent’anni di storia italiana, tra conduttori, tronisti, veline, club di periferia e la notte della Milano da bere. Luca Casadei, 43 anni, a Milano ci piomba che ne ha appena 17. Dopo il diploma preso a Parigi raggiunge il nonno, «un ex fruttivendolo, che era stato tra i fondatori del Festival di Sanremo ed era arrivato a gestire gli spazi pubblicitari su quasi 100 testate e in tutti gli aeroporti d’Italia»: «Con un doppiopetto, una valigetta e un italiano incerto, imparai a vendere cose a sconosciuti. Uno dei periodi più formativi della mia vita».
Poi?
«Poi mio nonno morì e io mi chiesi: “Adesso che cazzo faccio?”».
Ecco, cosa fa?
«Niente. Ma una sera me ne andai all’Old Fashion».
Fu una serata produttiva?
«Moltissimo. Vidi una ragazza che massacrò di botte un ragazzo. Ma lo fece con metodo e competenza. Rimasi shoccato e passai tutta la notte a pensare. La mattina dopo decisi: “Aprirò la prima agenzia di sicurezza al femminile. Angel’s security”».
Figo. Era esperto di sicurezza?
«Per nulla. Ma feci pubblicare un trafiletto a Repubblica. Altri giornali si accodarono. Un giorno mi chiamano da Verissimo: “Vorremmo venire sabato con le telecamere a fare un servizio su di voi”. C’era un piccolo problema: io non avevo in mano niente, nulla, a parte l’idea e il nome».
Il miglior venditore è quello che vende ciò che non ha.
«In due giorni feci tutto. Recuperai un paio di ragazze sconosciute in una palestra milanese, le misi addosso dei bomber e degli auricolari e le piazzai all’ingresso del Cadillac Cafè, il locale di un mio amico».
Funzionò?
«Sì. Iniziarono a chiamarmi locali, ristoranti e un politico. Dicevo a tutti sì. Appena mettevo giù il telefono, mi precipitavo a reclutare nuove ragazze».
Come passa al mondo dello spettacolo?
«Per caso. I proprietari dei locali di Milano iniziarono a chiedermi se oltre alle ragazze della sicurezza conoscessi anche delle cubiste. “Ovviamente sì”, rispondevo».
Mi faccia indovinare, non era vero.
«Ovviamente no. Per il primo locale, a Bergamo, mi chiesero 14 cubiste. Ne trovai solo sei professioniste. Le altre, erano completamente improvvisate. Ci organizzammo di nascosto per mostrare al padrone del locale solo quelle brave. A fine serata, quello me ne chiese 100 per la settimana dopo».
Erano gli anni della Milano da bere, la domanda non mancava.
«Ci strutturammo in un’agenzia vera e propria. Mi accordai con dei modelli per fare un calendario, da presentare nelle varie discoteche italiane. Uno dei protagonisti andò a fare il corteggiatore a Uomini e Donne: era Costantino Vitagliano».
Come passa alla tv?
«Grazie a quell’uomo geniale e generoso che era Riccardo Schicchi. Un giorno mi chiama: “Ho un appuntamento col produttore esecutivo di Paperissima, per far fare la prima serata a Eva Henger. Non ci posso andare, vai al posto mio?”. Aveva già quel problema di diabete che poi ce l’ha portato via».
Come andò?
«Feci ottenere la parte a Eva. Schicchi, da galantuomo e mentore qual era, mi fece un regalo: “Prenditi tu i meriti. Da oggi comincia la tua carriera da manager”».
Le insegnò lui il mestiere?
«Sì. Iniziai a lavorare con le star dei reality, poi con personaggi televisivi come Barbara D’Urso, Belén, Matteo Viviani, Elena Santarelli».
Com’erano i «ragazzi» del Gf?
«Capricciosi ed effimeri. Il loro successo era come una scorreggia davanti al ventilatore: quando arriva, senti solo il profumo che se ne va».
Questa è poesia. Qual è la svolta?
«Nel 2008 scopro Youtube: gli Smosh, Remy Gaillard, persone che con i loro video ispirano il mondo intero. Capisco che il futuro e lì e inizio a cercare l’equivalente italiano. Un giorno mi mostrano dei video con gli scherzi di tale Frank Matano».
Le piacque?
«No. Non capivo. Ma mostrai i suoi filmati a dei ragazzini: rimasero ipnotizzati».
Perché?
«Perché si immedesimavano in lui, vedevamo un video sporco, amatoriale, ma semplice e raggiungibile».
Cosa fa?
«Lo incontro e lo convinco a farsi “gestire” da me. Per tre anni faccio gli straordinari e mi divido tra tv e web. Nel 2012 mollo la Tv e fondo Web Stars Channel. Inizio a cercare una decina di volti di Youtube».
Chi è il primo?
«Favij. Lo incontro a Milano col suo papà. Un ragazzo timidissimo, un nerd, che però si illuminava in volto quando giocava davanti a una telecamera».
Difficile pensarlo come una star.
«Al contrario. Nella logica di Youtube, sarebbe diventata la star per eccellenza. Il ragazzo più normale che abbia mai conosciuto, non bello, non alto, non irraggiungibile. Ma proprio per questo quello che si prestava a essere l’amico, il fratello, il cugino di migliaia di ragazzini italiani».
Da allora ha creato un’azienda con 50 dipendenti e oltre 25 creator. Quali sono i requisiti imprescindibili che cerca nei talenti da acquisire?
«Un volto pulito, una competenza su un tema, un carisma fuori dal comune e un’energia positiva».
C’è qualcuno che non è riuscito a reclutare?
«Fabio Rovazzi, mio malgrado. Per un anno aveva bazzicato i nostri uffici, sfornando ottime idee. Così decisi di farlo entrare nella squadra. Gli mandai persino il file con il contratto da firmare. Qualche ora dopo gli telefonai: ci avevo ripensato».
Perché mai?
«Gli altri creator di Web Stars mi contattarono e mi chiesero in coro di non prenderlo. Non discutevano il suo talento, ma non gradivano il suo carattere. A malincuore scelsi di salvaguardare l’unità di squadra e di rinunciare a Fabio».
Che rapporto avete con i vostri creator?
«Societario, non solo di management. Cerchiamo di prendere talenti embrionali e di farli crescere, come se fossimo una major musicale. Li educhiamo, li invitiamo a godersi ogni momento, a essere positivi, a onorare gli sponsor».
Non c’è il rischio di ingabbiarli troppo e di farli diventare degli educatissimi paraculi?
«No, noi evitiamo di schierarci solo sui temi politici, perché è molto facile condizionare i giovani».
Qualche politico ha mai chiesto di lavorare con voi?
«Sì, un candidato di primo piano ci chiese di promuovere, attraverso i canali delle nostre star, le sue misure per i giovani. Gli dicemmo che eravamo disposti a farlo, ma a una condizione: non citare il partito e il candidato. Rifiutò».
Non mi sorprende. Altre regole?
«Niente parolacce. Chi le pronuncia, paga una multa: l’1% del proprio fatturato».
Mi faccia una previsione. Tra cinque anni i suoi creator saranno tutti su TikTok?
«Non lo so. Tiktok è una piattaforma piena di comicità frivola, che a quelli della mia generazione non dice tantissimo. La sfida, che mi pare siano intenzionati ad affrontare, è quella di creare verticalità».
Tradotto?
«Creare sezioni dedicate a vari argomenti, che non siano solo il balletto della ragazzina. Come quelli di mia figlia».
Sua figlia?
«Ha 17 anni e un discreto pubblico su TikTok. Un giorno i miei colleghi mi dicono che l’hanno coinvolta in un progetto con un brand».
Come l’ha presa lei?
«Con calma. Ho chiesto loro di non coinvolgermi. Ma in casa le ho imposto delle regole. Guadagna 500 euro? Se ne può tenere 50, gli altri andranno in un conto in banca a suo nome. Vuole la felpa da 70 euro? Dividiamo. Vuole un paio di scarpe da 1.000 euro? Se lo scorda».
Un manager-padre piuttosto duro.
«Deve divertirsi, godersi la giovinezza e non cambiare il suo sistema di valori. Dio non voglia che mi diventi come qualche creator che ho conosciuto, arrogante e cafoncello. Ci tengo al suo futuro».
E il suo futuro, invece?
«Io sono un creativo, non posso stare tutta la vita nello stesso posto. Il mio obiettivo è uscire dalla società entro il 2023».
Poi cosa farà?
«Mi butterò in un’altra avventura che ancora non so. In fondo, veda l’agenzia di security femminile, penso di essere bravino a vendere ciò che ancora non c’è».