A che cosa serve una laurea in Filosofia?
In Giovani, Carini e Disoccupati, il film cult che negli anni Novanta che ha segnato un’intera generazione, Troy (Ethan Hawke) è un giovane rockettaro, con 180 di quoziente intellettivo e una laurea in Filosofia quasi in tasca. Si dice che sia «un vero maestro nell’arte di perdere tempo», come lo definisce la sua brillante amica Lelaina (Winona Ryder), uno che «a trovare un lavoro e una casa potrebbe metterci degli anni». Sembra che ad attenderlo ci sia un futuro fatto solo di lavori precari (in un’edicola, in un fast food, come addetto alle pulizie), vestiti stropicciati, capelli lunghi e sveglia a mezzogiorno.
Venticinque anni dopo, stando ad uno studio dell’Università di Harvard, pare che cose siano molto diverse: i laureati in Filosofia non sono più condannati a una vita di disoccupazione e precariato ma sono, al contrario, quelli che hanno visto la maggiore crescita occupazionale e retributiva negli ultimi trent’anni.
Abbiamo chiesto a Ilaria Gaspari, autrice di Lezioni di felicità. Esercizi filosofici per il buon uso della vita (Einaudi super ET), che ha studiato Filosofia alla Scuola Normale Superiore di Pisa e si è addottorata alla Sorbonne, che cosa ne pensa.
«Oggi una laurea in Filosofia serve a tutto e a niente. Certo non ti procura un lavoro a colpo sicuro, perché non è come aver studiato Medicina e poter iniziare a curare i pazienti, o ingegneria e cominciare a progettare case e ponti. Anzi, quando finito di studiare la tua strada non è tracciata in nessun senso. Eppure, secondo me, è proprio questo il vantaggio».
In che senso?
«Questi studi contribuiscono a formare un certo modo di guardare il mondo: ti insegnano a non fermarti di fronte alle apparenze, a provare a cercare una soluzione negli angoli in cui non sbircerebbe nessuno, a tentare di capire le ragioni di quello che succede. Quando arrivi alla laurea, però, hai sì lo sguardo, ma non hai subito l’oggetto. Sai che devi fare un salto: devi essere tu a trovare il campo sul quale vuoi esercitare quello sguardo».
Sembra un salto nel buio.
«L’indeterminatezza non è necessariamente qualcosa di angosciante o paralizzante: anzi, la possiamo pensare come compresenza di molte opportunità “in potenza”, che può dischiudere inediti percorsi di carriera. C’è solo l’imbarazzo della scelta».
Qualche esempio?
«Sono molte le strade che si possono aprire: dall’insegnamento alla scrittura, dal giornalismo alla divulgazione, dal lavoro in azienda come consulente a quello nelle risorse umane. Però, in generale, le abilità di pensiero critico sono utili in ogni professione e in ogni campo del sapere, perché permettono di adattarsi velocemente ai cambiamenti macro economici del mondo contemporaneo».
Si rischia di perdersi, no?
«Per non rischiare di annegare nel mare infinito delle possibilità, prenderei a prestito gli insegnamenti di Socrate. E penserei al suo daimon: quella voce interiore che, anche a chi si mette nella posizione di “sapere di non sapere” (alla base di ogni vero atteggiamento filosofico), sa indicare come evitare le trappole e come costruire un destino che ci somigli, per essere felici in modo autentico: felicità, in greco, si dice eudaimonia – un daimon soddisfatto delle scelte che facciamo. Anche sul lavoro».
Nel suo ultimo libro, Lezioni di felicità, Gaspari ha provato a vivere seguendo i precetti dei grandi maestri dell’antichità, Pitagora e Parmenide, Epitteto e Pirrone, Epicuro e Diogene, per trarre degli insegnamenti che, oggi come allora, possano aiutare ad affrontare la vita con i suoi alti e bassi.
Che cos’hanno da insegnare questi filosofi antichi a chi si avventura oggi nel mondo del lavoro?
«Lavorando al libro ho fatto un esercizio di prospettiva: una cosa utilissima, anche rispetto al tema del lavoro. Cambiare postura di fronte al mondo ti costringe ad abbandonare la tua comfort zone, che è anche fatta delle parole con cui siamo abituati a definirci e a raccontarci. Io, ad esempio, mi sono sempre detta – e pensata – pigra, ma durante la mia settimana pitagorica ho capito che non dovevo sentirmi ricattata da una definizione che io stessa mi ero appiccicata addosso. La settimana parmenidea, invece, mi ha dato modo di riflettere sul tempo che passiamo a rincorrere obiettivi che non siamo davvero noi a porci. Meglio essere concentrarsi sull’attimo presente, domandandosi, con sincerità se valga davvero la pena di ipotecare l’oggi per il domani».